
Ci sentiamo finalmente liberi di farci e farvi delle domande che fino a oggi sembravano oscene per colpa di un dibattito pubblico inchiodato su due schieramenti ideologici e costantemente violentato da gente come Eugenia Roccella, Paola Binetti, Giancarlo Casini (tanto per dirne qualcuno). Interrogarsi sulla fertilità, sul diritto alla procreazione, sulla bioetica dell'avere un figlio in provetta rischiava di portare acqua al mulino degli scherani del cardinal Ruini (anche lui finalmente spazzato via da nuovi venti vaticani). Così, ed è bello confessarlo, ci siamo tenuti dentro tanti dubbi. Che oggi vogliamo provare a mettere in fila nella speranza di poter trovare risposte anche se parziali.
In estrema sintesi, ci chiediamo: che cos'è la sterilità? A prescindere dalla definizione clinica e da ciò che la distingue dall'infertilità (e su questo sia il sito dell'Istituto superiore di sanità sia quello dell'Oms - Organizzazione mondiale della Sanità - possono soddisfare tutte le vostre curiosità), vogliamo spostare la domanda sul terreno della medicina della persona, dell'antropologia medica più in generale e vederne i contorni sociali, storici e di genere, oltre che quelli biologici. Ma anche capire cosa significhi “curarla” e se debba essere il Servizio sanitario nazionale a fare questo mestiere. Con il quesito, aggiuntivo: chi la deve pagare? La fiscalità generale?
Cominciamo dalla sterilità. L'Oms dettaglia le ragioni bio-fisiologiche che possono causare l'impossibilità e le difficoltà di una coppia a generare. E i tecnici della procreazione medicalmente assistita (Pma) hanno un buon numero di risposte cliniche per avviare sia terapie delle singole disfunzioni sia soluzioni più drastiche come la fivet con entrambi i gameti donati. Non ci stancheremo mai di premettere che se la medicina scientifica ha le soluzioni o i tentativi di soluzione per qualunque delle nostre affezioni (del corpo o indotte dall'anima che siano), gli esseri umani non ci rinunciano. E che è nel loro pieno diritto farlo se non ledono i diritti altrui.
Quindi, la base di ogni ragionamento è semplice: le tecniche di Pma ci sono, chi vuole figli deve potervi avere accesso, le istituzioni devono garantire che questo accada nel rispetto della Costituzione, vale a dire che nella pratica medica non ci sia nulla che può danneggiare la salute delle coppie e dei nascituri. Questo implica che il Ssn e le istituzioni che lo gestiscono devono assicurare che non ci siano dei furbi che rapinano le coppie nelle case di cura in totale assenza di sicurezza e efficacia delle terapie. Perciò io penso che sia il Servizio sanitario nazionale a dover erogare le terapie e le tecniche di procreazione medicalmente assistita. Magari non direttamente nelle sue strutture, magari attrezzando strutture accreditate e supercontrollate, ma sempre sotto il cappello del Ssn, delle regioni, cui la riforma del titolo V (in attesa di riforme renziane) attribuisce la gestione della sanità, e il ministero della Salute che deve controllare e erogare le linee guida. Chiaro e semplice, no?
Mi resta però un interrogativo che si trascina dietro una valanga: chi paga? Tutto l'amabardan clinico della procreazione medicalmente assistita deve essere a carico della fiscalità generale e incluso nei livelli essenziali di assistenza?
Io sarò molto chiara, a costo di risultare antipatica: no.
E qui arrivano i coperchi.
I Livelli essenziali di assistenza (Lea) sono le prestazioni che il servizio sanitario nazionale deve assicurarci per garantire la nostra salute in rispetto della Costituzione. Ricordate: la Repubblica tutela il diritto alla salute. Ma: avere figli se la biologia non ce lo consente è un “diritto alla salute”? No.
I Lea e le altre prestazioni che le singole Regioni ritengono di erogare a carico della fiscalità generale (non di rado con qualche uscita strampalata) hanno lo scopo di farci stare bene, di ritardare la morte, di lenire il dolore. Già fare questo oggi è un'impresa tale che 13 regioni su 21 non ce la fanno. E anche quelle che ce la fanno sono sempre più farraginose, lente, inadempienti.
Non vogliamo aprire qui il tema della sempre più difficile sostenibilità del Ssn, ma è sotto gli occhi di tutti che la coperta è corta e che la più bella delle nostre istituzioni regge solo se si tiene la barra molto dritta e si fanno per bene poche cose, davvero utili e essenziali per restare in salute e in vita. Nei mesi scorsi abbiamo dovuto registrare un aumento, anche se piccolo, delle morti per parto, il peggiore segnale di inciviltà. Può un sistema così in difficoltà pagare la procreazione medicalmente assistita? Io penso di no. Come non può pagare la chirurgia plastica (che non è solo antiage, si badi), non può pagare le terapie non comprovate, come ha fatto invece con la cura Stamina, non può pagare le psicoterapie, se non in presenza di una malattia mentale vera, né i farmaci che ci fanno felici (dagli antidepressivi al viagra) e potrei continuare.
Questo non significa che non debba controllare e garantire che tutto si faccia al meglio. Così come deve garantire che se si vende un antidepressivo o un Viagra in Italia sia efficace e non dannoso. Nel caso della Pma magari potrà provvedere che le coppie vadano a cercarsela in ospedale. Da anni siamo abituati al fatto che nei nosocomi si facciano prestazioni a pagamento, che ci siano cliniche accreditate che agiscono in nome e per conto del Ssn.
Io la vedo così: il ministero deve scrivere delle linee guida e delle norme stringenti, deve attrezzare luoghi dove la Pma sia sicura e ben fatta. E le regioni devono tenere i costi di queste prestazioni al minimo. Magari quelle ricche decideranno di fornirle gratuitamente, in determinate condizioni, hanno la facoltà di farlo, ma il rischio è che decidano in tal senso per questioni di marketing politico più che di salute pubblica; è meglio, invece, che si attrezzino a fare quel che non fanno per i malati di cancro, ad esempio, o per la prevenzione dei tumori e delle malattie cardiovascolari. Mi auguro che i cittadini sappiano giudicarli su questo e non sulle buone intenzioni: una regione che non fa screening oncologici per il seno, la prostata e il colon ma fornisce l'agopuntura, ad esempio, cerca voti a scapito della salute della sua gente. Così come mi pare sciocchina se garantisce la procreazione in vitro e non l'educazione alimentare nelle scuole. Mi si dirà: costa molto meno l'agopuntura dello screening, la Pma della vera educazione. Ma a me non pare un buon motivo: è solo gettare fumo negli occhi dei cittadini.
Sento levarsi la scomunica: così discrimini per censo. Chi potrà permetterselo si farà un figlio in provetta, i poveracci staranno a guardare. Ma ho premesso che con questo servizio ci saremmo addentrati nelle viscere del politicamente scorretto: ed eccoci qua.
Perché, com'è ovvio, la scomunica di cui sopra ha le sue buone ragioni. E non basta il dogma economicistico: la coperta è corta, il Ssn deve scegliere. Bisogna aprire questa scatola, quella dei diritti e dei doveri. Di una coppia, ma soprattutto di una donna. Ops, un'altra scomunica: è la coppia che sceglie la procreazione, la donna è uno dei poli (a volte tutte e due i poli sono donne se la coppia è omosessuale: ma è un'altra scatola ancora, non apriamola) tuoneranno in molti. Vabbé, ma non viviamo nel mondo delle favole. La maternità pesa soprattutto sulle donne, è una costrizione sociale per le donne, è un'angoscia delle donne anche quando la sterilità è dell'uomo. Con questo non nego né valori né fatiche della paternità. Mi preme chiarire che la bioetica della procreazione è una questione di genere.
Ecco allora la domanda a cui è davvero difficile dare una risposta: la fertilità è una condizione normale mentre la sterilità una condizione patologica? Chi lo decide: il ginecologo? il genetista? il bioeticista? o piuttosto il corpo sociale? Una coppia che, pur desiderandone, non riesce ad avere figli è malata? Se così fosse la Costituzione garantirebbe loro il diritto ad avere dalle istituzioni ciò che serve a provare a tornare in salute. (Ma allora, anche se “non riesce” pur desiderandolo per ragioni economiche dovremmo tutti farcene carico: altra questione all'ordine del giorno con molte luci e ombre).
Inciso a parte, bisogna allora che definiamo la parola “malattia”, un'impresa impossibile; ci hanno provato decine di filosofi della medicina e medici senza venirne davvero a capo. Perché sarebbe facile dire che la malattia è una deviazione dalla normalità, ma sarebbe sbagliatissimo e finirebbe col far girare nella tomba non solo Focault ma molti altri cervelloni. Non esiste una normalità tout court, com'è ovvio. Possiamo pensare, ad esempio, che il nostro cuore è malato se smette di funzionare, che lo è il nostro ginocchio se ci fa male ogni volta che ci alziamo in piedi. Siamo malati se una proliferazione cellulare incondizionata sta pian piano impedendo ai nostri organi di funzionare, e lo chiamiamo cancro. Ma su molte cose, la zona è grigia. Siamo sicuri che il nostro utero sia malato se fatica ad accettare l'impianto di un embrione? O che lo sia uno sperma con un numero di spermatozoi insufficiente a procreare?
Sperare che la medicina ci risolva un problema sociale è sempre pericoloso (guardate che casino s'è fatto coi manicomi). Quindi io non chiederei alla medicina se l'infertilità è malattia. Mi piace più pensare che sia una condizione umana, che reca molto dolore a molti e lascia del tutto impermeabili altri. Certamente la medicina deve aiutare coloro che soffrono questa condizione, come coloro che faticano a superare un lutto, che non si mettono d'accordo con la loro vita. Ma dobbiamo riconoscere che sono tutte condizioni esistenziali, per quanto penose, non malattie.
Non solo. Resta da aprire la scatola (pentola) più pericolosa. La questione di genere. Dalla notte dei tempi fare figli è il centro dell'esistenza femminile. Da qualche secolo è il nocciolo della costruzione della famiglia e quindi dell'ordine sociale. Secondo San Paolo è solo facendo figli che le donne si salvano, ovvero acquistano una ragion d'essere, e da quel momento non c'è stata alternativa possibile. Il diritto di non fare figli è invece una conquista recente, e solo in una piccola parte del pianeta, ancora guardata con estremo sospetto. Non si può prescindere da questo quando si prova a tracciare un quadro bioetico della Pma. Perché il fatto che la medicina metta a disposizione delle tecnologie capaci di forzare la biologia diventa una patata più che bollente nelle mani di un mondo dove fare figli è ancora un obbligo sociale, e, ancora più inquietante, un obbligo degli amanti. La nascita o la non nascita diventano il luogo di tutte le ossessioni di una coppia, ne minano l'armonia e la stessa tenuta. Diventano il nodo scorsoio col quale la famiglia allargata rischia di strangolare la volontà dei singoli.
Per concludere: le corti italiane hanno smantellato a giusta ragione la legge 40. Lo hanno fatto perché in più parti legava così tanto le mani ai medici da risultare un pericolo (quando, ad esempio, negava la possibilità della diagnosi preimpianto), e lo hanno fatto perché le sue norme hanno impedito a molte coppie l'accesso a tecnologie mediche disponibili e le hanno costrette ad andare a cercare all'estero le terapie necessarie. Aspettiamo di conoscere le motivazioni con le quali apre la strada all'utilizzo di gameti estranei alla coppia, ma certo, in ogni caso, questo pronunciamento smentisce una volta per tutte che una famiglia è tale solo se benedetta dall'unione genetica di due esseri viventi di sesso diverso. E sancisce la natura sociale della famiglia.
Ma proprio questo, di cui francamente io non ho mai dubitato, ci obbliga a ragionare sul diritto alla procreazione, a decidere se declinarlo come obbligo della società a fare di tutto perché sia attuato, o come libera espressione di individualità che la società deve rispettare. Laddove per “rispettare” io non intendo lasciare alla libera iniziativa dei singoli (da un lato gli aspiranti genitori, dell'altro i medici e gli imprenditori della sanità) perché la Pma è comunque un atto medico, che può avere conseguenze gravi per la salute della coppia e del nascituro, quindi è materia del Ssn. Va eseguito sotto il controllo delle autorità sanitarie non perché cura una malattia, ma perché può generarne. Perché, come la gran parte degli atti medici, riveste per chi vi ricorre un'importanza estrema ed è un dovere di solidarietà sociale che l'intera comunità, attraverso il Ssn, se ne faccia garante.