«Vorrei che lo viveste voi quel giorno. Che lo superaste voi quel mattino in cui il medico ti dice: “Lei non può avere figli”. Provatelo voi, quel momento. E poi saprete dirmi se l'infertilità è una malattia oppure no. Se va curata nelle strutture pubbliche oppure no. Coi soldi pubblici oppure no». Barbara Verza ha 43 anni. Ne aveva 29 quando è nato, grazie alla fecondazione artificiale, Saul. Sopravvissuta a due anni di ormoni, visite, controlli e poi ancora esami, digiuni, profilassi e preghiere, sostiene: «Se rinunciamo alla possibilità di garantire a tutti la procreazione medicalmente assistita significa che rinunciamo alla possibilità di essere un paese civile». Perché, insiste: «Che Stato è quello che ti dice: “Ho la cura, conosco il progresso che ha fatto la scienza in questo campo, ma non me lo posso permettere: per cui tieniti la tua menomazione?”».
Menomazione, maternità, diritti, realizzazione. Parole-labirinto, quando si parla di donne, di etica e di medicina. Per guardarle allora dal punto da cui le guarda Barbara bisogna fare un passo indietro, arrivare al 1985. E bisogna ricordare che oggi questa mamma di Vigevano, provincia di Pavia, è capogruppo in consiglio comunale del Partito Democratico, ovvero di un partito che ha un leader cattolico che in passato si è espresso a favore della legge 40. Ovvero della legge contro cui lei, Barbara, ha lottato, raccogliendo firme in vista del referendum abrogativo (non riuscito), trascorrendo notti ad attaccare manifesti e pomeriggi a organizzare dibattiti.
Quindi, 1985. Barbara ha 14 anni. E un giorno, davanti ai genitori, e alla sua diagnosi di amenorrea (niente mestruazioni) un medico le affida quel: «Signorina, lei non potrà avere figli» che a ricordarlo, ancora, non riesce a non piangere, lei che per tutto il resto dell'intervista alterna enfasi a sicurezza. «Da allora non ho potuto non pensarci», racconta: «Ero diversa. Lo sarei stata per sempre. Infertile al 98 per cento». Perché diversa? «Perché non ho mai incontrato una donna che non provi il desiderio di essere madre». E se fosse invece, se la maternità fosse un imposizione sociale, più che un desiderio naturale? «È possibile, certo, ma io non ne conosco di trentenni che non l'hanno provato, quel desiderio. E non conosco nemmeno una persona, uomo o donna, che trovatasi a essere infertile reagisca senza problemi».
Ma quindi la malattia è quella, è non poter diventare madre? «La maternità è il più forte desiderio che ho mai provato. Continuo, costante». La rendeva malata, l'impossibilità di procreare? «Sì. Era un pensiero fisso, quel futuro sancito frettolosamente, mi ha segnato per tutta la vita. Una cicatrice». E quindi la cura cos'è, cos'è stata, avere un bambino? Un figlio può essere definito “cura”? «Ah ecco la trappola: no, non ci casco. Io non l'ho fatto per “realizzarmi”. Non l'ho fatto da egoista, come mi hanno accusato quelle pasionarie della legge 40 coi loro figli naturali in braccio. No. Io oggi sono una mamma libera. L'ho fatto perché sapevo di poterlo fare: mi sentivo male. La scienza mi avrebbe permesso di stare meglio. Di essere felice. Mi sono presa quella possibilità. Perché ogni aiuto di fronte al macigno dell'infertilità, ogni speranza, cambia la vita di una persona». Insiste: «L'ho conquistata, io, la maternità. Altro che nove mesi: la mia gestazione è durata due anni, e sono stata pure fortunata, a riuscirci solo al terzo tentativo. Ma ero mossa da amore. Non da egoismo. Da amore».
Possibilità, speranza. Altre parole. Un'altra data. È il giorno di Pasqua del 1998. «Avevo iniziato da qualche mese la trafila di esami necessari a capire se avevo la possibilità di rimanere incinta con la fecondazione artificiale oppure no», racconta: «I dottori – era una struttura pubblica - mi trasmettevano la più completa sfiducia. Quel giorno sarei dovuta andare a ritirare l'esito della laparoscopia, il controllo che avrebbe detto definitivamente se le mie ovaie erano sufficientemente sviluppate. Non volevo nemmeno passare a prendere il referto di persona. Non ci facevo conto. Ma andai. Ricordo benissimo l'istante in cui aprii la busta, ricordo il cielo, com'ero vestita, tutto. Perché in quel momento mi si è aperto un mondo. Mi è stata data una speranza. La mia vita poteva cambiare. "Felice", per definire come mi sono sentita, non è abbastanza».
Quella possibilità era solo l'inizio. Poi è cominciata la trincea: le terapie. Due cicli completi, ormoni e intervento, finiti male, in un ospedale pubblico di Milano. «Era terribile. Mio marito è stato costretto a produrre lo sperma», ovvero a masturbarsi, spiega: «Nel bagno delle donne. Con le pazienti che bussavano per entrare. Ma come si fa?!». Quindi, la decisione di passare a mani private, più delicate di quelle ospedaliere. «Entrambi lavoravamo, eravamo soli», racconta: «Ce lo siamo potuti permettere. Fra esami, ricoveri, ormoni e interventi abbiamo speso, mi ricordo, 10 milioni di lire». Nel momento dell'inseminazione però - che, prova a spiegare: «È come pensare che stai concependo tuo figlio» - li hanno lasciati soli: «Un po' di intimità almeno. Eravamo una coppia». E ha funzionato. Nove mesi dopo è nato Saul.
«Lo sa quanto ho pregato?», aggiunge: «Il giorno prima andai anche dal parroco del nostro Paese. E lui mi disse: “Io, e tutta la comunità, pregheremo perché in quel momento intervenga la mano di Dio”. Questa è la Chiesa. Non quella delle Binetti – Roccella e delle imposizioni della legge 40».
Saul nato, lei mamma, è finita nel 2004 a diventare attivista politica, per cercare di abbattere la legge che impone limiti e divieti alla tecniche di procreazione assistita, divieti smantellati man mano dalla Corte Costituzionale: «L'ho fatto perché conosco la solitudine in cui si ritrovano le coppie infertili. E non potevo accettare che lo Stato ci togliesse dei diritti che abbiamo conquistato grazie alla scienza». Quindi la militanza nel Pd.
E oggi dice: «Capisco chi pensa: non è prioritario garantire queste terapie coi fondi pubblici. Qui a Vigevano ad esempio non fanno che chiudere reparti, manca poco che ci tolgano il primo soccorso. Ma i tagli si possono fare altrove: gli stipendi dei dirigenti, gli sprechi di chi ha rubato fino ad oggi. Privare le famiglie di questa possibilità significherebbe rinunciare alla scienza. E alla speranza di far star meglio migliaia di persone, di donne e di uomini, che soffrono altrettanto». Di più: «Se potessi parlare con Matteo Renzi, gli direi che non solo bisogna inserire l'infertilità nei livelli essenziali di assistenza degli ospedali, e che la procreazione artificiale dev'essere accessibile a tutte le coppie. Gli direi pure che dev'essere migliorata: non è solo un intervento chirurgico. C'è bisogno di strutture adeguate, di assistenza psicologica, di rispetto».