Silenzi, omissioni, reticenze. Nei paesi scenario dell'omicidio della ragazzina di Brembate Sopra, nel bergamasco, tutti si conoscono. Ma solo la tenacia di un maresciallo è riusciata a scalfire il muro del silenzio

Me no. Io no. Per una frase così  breve, pronome personale e negazione, è comprensibile anche l’ostico dialetto bergamasco. «Me no» è il ritornello secco, definitivo, quasi ostile che è stato colonna sonora delle ricerche dell’assassino di Yara Gambirasio. Almeno per le orecchie di un maresciallo che si è scontrato, giorno dopo giorno, porta dopo porta, per mille e più porte, con quella che in Sicilia chiameremmo omertà e che, salendo la latitudine, si addolcisce nella più accettabile “riservatezza”. «Me no» è stata la risposta standard opposta alla perenne domanda, declinata in tante sfumature, “sai qualcosa?”.

Finché lentamente, colpo dopo colpo, si è aperta una breccia nel muro della diffidenza. Va bene la scienza, il Dna, le compatibilità genetiche, l’allele raro, i laboratori, ma, parallelamente, per venirne a capo, ci sono voluti il sudore artigianale, le scarpe consumate, la pazienza, l’ostinazione. Insomma l’indagine vecchio stile sul territorio, quella basata sulle confidenze, le mezze ammissioni, le connessioni da interpretare, le tessere di un mosaico che si incastrano e vanno al posto giusto.

Per raccontare questo lato meno noto dell’indagine bisogna tornare all’ottobre scorso. Yara è stata uccisa da quasi tre anni. Da uno gli inquirenti sanno chi è il padre dell’assassino. Ci sono arrivati grazie a un mix di tenacia e fortuna. Isolata una traccia di Dna maschile (battezzata “Ignoto 1”) sugli slip e sui leggings della tredicenne hanno disposto il più esteso screening di massa della storia italiana, 18 mila campioni raccolti. Compresi quelli dei frequentatori della discoteca “Sabbie Mobili” di Chignolo d’Isola, che si trova accanto al campo dove è stato rinvenuto il cadavere. Sorpresa: un cliente del locale da ballo, Damiano Guerinoni, innocente, bene precisarlo subito, condivide con “Ignoto 1” il ceppo familiare per via paterna. Di parente in parente sono risaliti allo zio, Giuseppe Guerinoni, di Gorno, autista di autobus, morto nel 1999 a 60 anni, sposato con due figli, pure completamente estranei. Eppure è lui, per la scienza, il padre del presunto killer al 99,99999987 per cento. Un figlio illegittimo, è il sospetto. Corroborato da quanto affermato da Vincenzo Bigoni, collega di Guerinoni: «Mi confidò che aveva messo nei guai una ragazza di San Lorenzo di Rovetta. Sarà stato all’inizio degli anni Sessanta». Verità nella sostanza, ma alcuni dettagli sbagliati, il periodo, il luogo, allontanano la soluzione.


INCHIESTA VECCHIO STILE
Torniamo all’ottobre scorso. Gli inquirenti, più che brancolare nel buio, sono appesi a una provetta. Quasi peggio, psicologicamente: sei a un passo e non procedi mai. Chignolo d’Isola, Brembate Sopra (il paese di Yara), sono all’inizio della pianura bergamasca a ridosso del capoluogo. Gorno, San Lorenzo di Rovetta, una cinquantina di chilometri più su, Alta Valle Seriana, dintorni di Clusone. È là che viene custodito il mistero. Là bisogna vincere il muro di gomma. Letizia Ruggeri, il pm, ha nella sua squadra di polizia giudiziaria un [[ge:espresso:attualita:1.172138:image:https://espresso.repubblica.it/polopoly_fs/1.172138.1404401684!/httpImage/image.jpg_gen/derivatives/articolo_480/image.jpg]]maresciallo dei carabinieri, Giovanni Mocerino, 58 anni, originario di Afragola (Napoli). A 20 anni, vinto un concorso alle poste, si è spostato a Varese. Vita impiegatizia? Non faceva per lui. Sente la vocazione della divisa, entra nell’Arma e prende servizio proprio a Clusone, inizio degli anni Ottanta. Lì ancora abita e fa la spola con Bergamo. Chi meglio di lui, una faccia nota, rassicurante, per penetrare nei segreti di questa “Twin Peaks” orobica, con molte similitudini con la famosa serie tv americana di David Lynch? Anche qui c’è l’omicidio di una ragazza, seppur avvenuto altrove, anche qui c’è da far affiorare il lato oscuro di una comunità di montagna. E l’agente speciale Dale Cooper è un signore dall’aria paciosa, giacca cravatta, capelli e barba bianchi: Mocerino appunto.

Il maresciallo ha un nucleo forte dal quale partire, Giuseppe Guerinoni. Da quel centro irradia le ricerche. I congiunti, i colleghi, gli amici, i passeggeri dell’autobus. Il suo è un viaggio a ritroso nel tempo, nell’Alta Valle Seriana degli anni Sessanta - Settanta, in quel mondo  che usciva dalla miseria ed entrava, a pieno titolo, nel boom con le fabbriche cresciute attorno al fiume Serio per alimentare, oltre al benessere, il mito della laboriosità bergamasca. Ma si scontra con quella sequela infinita e scoraggiante di «me no». Un’indisponibilità per timore di violare la privacy e rovinare famiglie che finisce per equiparare, nel tetragono mutismo, un adulterio a un omicidio. 

Però va avanti, Mocerino, convinto che non ci possa essere segreto così impenetrabile da resistere alla sua cocciutaggine. Diverse volte crede di esserci arrivato per una coincidenza di indizi: donna, dell’età giusta, della zona giusta, e con un figlio illegittimo. Ma è il laboratorio di genetica a smontare l’illusione, a strozzare in gola un urlo di vittoria che un Paese intero attende. Perché Yara è uno di quei casi di cronaca nera che eccedono se stessi e diventano metafora della capacità di uno Stato di esercitare la giustizia. Tanto più ora che la tecnologia mette a disposizione strumenti prima impensabili. Tanto più ora che si è arrivati “a tanto così” e non si può subire l’onta di una beffa.

È LEI
Passa però l’autunno 2013. Si entra nel quarto anno dal delitto e niente succede. L’inverno copre di neve i monti delle Orobie e il maresciallo non molla. Va di bar in bar, di casa in casa, offre e si fa offrire caffè. Scende a Bergamo per riferire a Letizia Ruggeri. Niente. Solo un congruo numero di corna scoperte e che erano state cristianamente sepolte nell’oblio. Tornano verdi i prati dell’altopiano di Clusone, fiorisce la primavera e, quando diventa tardiva, ecco la svolta. Per sublimare la quale bisogna lasciare la fiction di “Twin Peaks” e scomodare la grande letteratura per le assonanze con “La lettera scarlatta” di Nathaniel Hawthorne (nella trama, un adulterio) e soprattutto con “La lettera rubata” di Edgar Allan Poe, quel documento che stava sotto gli occhi degli investigatori ma che nessuno vedeva. Perché, come scopriremo, la madre del presunto killer che tutti cercavano era la vicina di casa del padre biologico. E il testimone chiave il vicino di casa del nostro maresciallo. 

Siamo ai primi di giugno, dunque, e Mocerino si rimette per l’ennesima volta faccia a faccia con Antonio Negroni, il vicino appunto, nonché un anziano autista come Guerinoni. Esce, da quel colloquio, il nome di Ester Arzuffi. È il precipitare verso l’epilogo. L’Arzuffi era stata censita tra le 584 donne che erano entrate in contatto, a qualunque titolo,  con Giuseppe Guerinoni, tanto che già nel 2012 era stata sottoposta al test del Dna. Qui due versioni opposte entrano in collisione. Una vuole che quel campione fosse tra i 4 mila (su 18 mila) ancora da analizzare, l’altra che fosse stato vagliato ma sia stato commesso un errore. In ogni caso il 13 giugno i laboratori danno il responso: è la madre di “Ignoto 1”. Due giorni dopo suo figlio Massimo Giuseppe Bossetti, 43 anni, muratore, viene fermato per un controllo stradale e sottoposto all’etilometro, lo stratagemma escogitato per prendergli il Dna. Arriva il responso atteso: è lui. E viene incarcerato, 16 giugno, con l’accusa di essere l’assassino di Yara Gambirasio. Non si capisce tanta fretta se non coniugandola alla lunga attesa. Per irrobustire l’apparato accusatorio (in aula il Dna non basta) si poteva mettere sotto controllo il telefono, fargli capire che era braccato, aspettare il passo falso.

AMANTI DEL PASSATO
È sempre facile, a posteriori, riprendere il filo degli indizi e rammaricarsi degli sbagli, del tempo perso. In questo caso con qualche ragione decisiva, scritta nelle biografie degli amanti di allora, Ester Arzuffi e Giuseppe Guerinoni. Lei, classe 1947, è originaria di Villa D’Ogna, a ridosso di Clusone, un paese che al censimento del 1971 denuncia 1727 anime, dove tutti si conoscono e dove non passa certo inosservata l’intrigante Ester con gli occhi color del cielo. Non ha ancora 20 anni, nel 1967, quando si sposa con Giovanni Bossetti e va con lui ad abitare a Ponte Selva, frazione di Parre, grumo di case sul ciglio di alcuni tornanti in salita. Il vicino di casa è proprio Giuseppe Guerinoni, l’autista, al quale l’ingenuo marito affida il compito di portare tutte le mattine la moglie al lavoro alla manifattura “Festi-Rasini” di Villa d’Ogna, distante cinque chilometri, e che a quell’epoca impiegava centinaia di operaie.  Davanti alla fabbrica c’era (c’è ancora) un bar dove si attardava la trentina di autisti in attesa della fine dei turni e dove capitava spesso che quei conducenti e quelle ragazze si mischiassero per una canzone al jukebox, l’accenno di un ballo. 

Giuseppe Guerinoni ha otto anni più di Ester, è «ö bel òm», un bell’uomo anche nel ricordo attuale di chi lo conobbe e quanto duri quel legame è impossibile sapere dato che lui non c’è più e che lei lo nega contro l’evidenza scientifica. Di certo alcune centinaia di persone potevano sospettare della liaison su quel fazzoletto di terra dove ognuno si fa gli affari propri anche se tutti conoscono gli affari degli altri. Sono ancora vive e in salute molte delle operaie della “Festi-Rasini” che li vedevano comparire insieme, tutte le mattine per almeno un paio d’anni. E poi Vincenzo Bigoni. Ricordate? È l’autista che sbaglia la data e il luogo, ma è amico di tutti e tre, lei, lui e l’altro. E di cui adesso gli inquirenti dicono: «Speriamo che davvero lo abbia tradito la memoria...». 

Comunque sia, nel 1969 Ester e il marito Giovanni Bossetti lasciano la Val Seriana, lui si è stancato del lavoro alla “Pozzi”, hanno deciso di prendere l’auto e di fermarsi dove troverà una nuova occupazione, allora funzionava così: sarà la“Philco” di Brembate Sopra. Si sono trasferiti da un anno, è l’autunno del 1970, quando nascono due gemelli, Massimo, l’incriminato per l’omicidio, e Laura, riconosciuti dal Bossetti ma figli naturali dell’autista di Gorno per il Dna. E si può dunque dedurre che la storia fedifraga sia continuata almeno un po’.

Il segreto di Ester sarebbe stato inespugnabile se le tracce genetiche del figlio non fossero finite sugli slip di Yara provocando il terremoto in una società abituata ai silenzi del monte Presolana e a chiudere le imposte se passa un forestiero, magari per spiarlo da dietro le persiane. Finiranno le dirette tv, i parroci non dovranno più invitare, come fanno in questi giorni, a «pregare e non parlare». Anche se tacere è un’omissione. Chi scrive è della Val Seriana. Nel cortile della mia infanzia abitava una ragazza madre. A chiunque le chiedesse chi fosse il padre rispondeva: «Ön òm coi braghe», un uomo coi pantaloni. Si è portata quel nome nella tomba. Fiera di quel suo essere così bergamasca e così fedele a un giuramento. Ma copriva la sua storia, non un omicidio.

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