Metà dei giovani ne fa uso, la mafia fa affari, il proibizionismo ha fallito. Ma nel mondo cresce la voglia di liberalizzazione. Un grande medico spinge l’Italia sulla stessa strada

La posizione del New York Times di domenica 27 luglio a favore della legalizzazione della marijuana non va letta solo come una campagna del più autorevole giornale americano - e uno fra i più influenti al mondo - ma come una svolta culturale che il mondo occidentale non può ignorare. Il cambio drastico di una linea editoriale che aveva fino a ieri appoggiato il proibizionismo è infatti lo specchio di un’ evoluzione mondiale verso la liberalizzazione delle droghe leggere, che ultimamente ha accelerato le sue tappe.

A fine 2013, per iniziativa del Presidente Josè Pepe Mujica, l’Uruguay è diventato il primo Paese al mondo a legalizzare pienamente la cannabis, facendosi carico della produzione, distribuzione e vendita; a gennaio di quest’anno il Colorado e subito dopo lo Stato di Washington hanno autorizzato il consumo di cannabis ad uso “ricreativo” e i sondaggi americani confermano che già da due anni i cittadini favorevoli alla liberalizzazione hanno raggiunto la maggioranza (54 per cento), mentre nel 1970, ai tempi dell’approvazione della legge proibizionista di Nixon, erano solo il 15 per cento. Sempre in Usa, gli Stati dell’Oregon, Alaska e California hanno indetto per novembre prossimo un referendum che, stando alle indagini sul parere dei cittadini, dovrebbe andare nella direzione antiproibizionista. Secondo i dati diffusi in Colorado dal Department of Revenue, l’equivalente del nostro Tesoro, nel mese di gennaio 2014, quando è entrata in vigore la legge sulla liberalizzazione, la vendita ufficiale di marijuana ha incassato 14 milioni di dollari, sottraendoli alla malavita. Si prevede che il prossimo anno fiscale il mercato della marijuana raggiungerà il miliardo di dollari, dai quali lo Stato del Colorado incasserà almeno 130 milioni.

Intanto anche il quadro europeo negli anni si è mosso verso la liberalizzazione, con le esperienze dell’Olanda, il primo Paese in cui la depenalizzazione è stata totale, e poi di Spagna, Portogallo e Belgio dove la legislazione è aperta, ma più restrittiva.
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E l’Italia? Noi siamo fermi al febbraio di quest’anno, quando la Consulta ha dichiarato incostituzionale la legge Fini-Giovanardi che equiparava le droghe pesanti e leggere, prevedendo pene fino a 20 anni di reclusione per il loro uso. La sentenza fece scalpore: si calcolò che le condanne dovevano essere riviste per ben 10 mila detenuti - perché connesse all’uso di droghe leggere - e dunque per circa la metà di tutti i reclusi per droga, che sono il 40 per cento di tutti i carcerati.

Sono cifre che la dicono lunga sull’inefficacia del proibizionismo, ancor più se pensiamo che, malgrado il numero enorme di carcerazioni, si stima che il 50 per cento dei nostri giovani faccia uso di cannabis, senza calcolare il gran numero di adulti. Dovremmo considerare la metà dei nostri giovani dei criminali? Eppure, finito l’attimo di indignazione per la situazione carceraria, devastata da un sovraffollamento cronico, nessuno più ha sviluppato il dibattito sull’aspetto filosofico e civile del proibire le droghe leggere.

Io mi batto pubblicamente da decenni contro il proibizionismo e in questo mio impegno ho ripetuto all’infinito che, come medico e come padre, sono un convinto oppositore di tutte le droghe, pesanti e leggere, compreso fumo e alcol, perché creano assuefazione clinica e danni spesso irreparabili e talvolta letali. Sono però altrettanto convinto che proibire e punire non serve, anzi può peggiorare la situazione.

Dobbiamo passare da una’attività indiretta (vietare) a un’attività diretta (educare). Ovviamente è molto più difficile convincere un ragazzo a tenersi lontano dalle droghe che fare una legge che le vieta tout court. Tutti sappiamo per esperienza diretta che la ribellione è una fase imprescindibile della crescita individuale e dovremmo essere coscienti che il trasgredire un divieto aumenta il senso di identità di una personalità in formazione: io mi differenzio dal mondo adulto perché non seguo le regole che mi impone.
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Dunque bisogna trovare attività e stimoli alternativi, che soddisfino il bisogno di autoaffermazione dei giovanissimi, senza ledere la salute e mettere in pericolo la vita. Dovremmo organizzare dei corsi completi di prevenzione nelle scuole pubbliche, che invece non si possono fare finché c’è la proibizione che, secondo lo Stato, è già un deterrente. Tuttavia dovrebbe essere evidente che se un divieto non viene osservato dalla maggior  parte dei destinatari, e quindi tutti fondamentalmente delinquono, c’è qualcosa che non va nel divieto stesso.

La realtà dei fatti ci dimostra che rendere la cannabis un piccolo crimine non serve affatto a ridurne il consumo e che se rendiamo criminali i consumatori di droga, li obblighiamo soltanto ad uscire dalla legalità e dal controllo, senza che smettano di drogarsi. Così facciamo gli interessi del mercato nero e della criminalità organizzata che lo gestisce e che, ovunque nel mondo, è l’unica a trarre vantaggio dal proibizionismo. [[ge:espresso:attualita:1.139747:article:https://espresso.repubblica.it/attualita/2013/11/04/news/cannabis-quei-miliardi-regalati-alle-mafie-1.139747]]Da noi, la mafia. Le stime più recenti dicono che la mafia incassa per la droga (tutte le droghe, ovviamente) circa 60 miliardi euro ogni anno in Italia, un patrimonio che la rende potente, indipendente e inattaccabile. Ma se proibire è deleterio, legalizzare non basta. È solo un primo passo che deve esser seguito dall’educazione e l’informazione. Bisogna saper trasmettere il principio non tanto che la droga è illegale, ma che ha un valore socialmente e individualmente negativo.

Basta con le demonizzazioni quindi. 

Quando nel 2000 come Ministro della Sanità ho iniziato la mia battaglia per l’uso degli oppiacei e i cannabinoidi contro il dolore, ho trovato un muro ideologico perché queste sostanze, oltre ad essere potenti antidolorifici, hanno il “peccato originale” di essere anche sostanze stupefacenti. Dopo quasi quindici anni la situazione non è radicalmente cambiata: alcune Regioni hanno reso accessibile la cannabis ad uso terapeutico, ma nel resto del Paese l’uso medico dei derivati della cannabis è ancora tabù perché si teme un “via libera” all’uso ludico.
Siamo dunque un Paese che vieta inorridito la marijuana (che non ha mai ucciso nessuno) ma che lucra senza vergogna su una droga che causa 50 mila morti l’anno: il fumo di sigaretta.

Come è possibile che uno Stato proibizionista non solo legalizzi, ma addirittura guadagni, attraverso il Monopolio dei Tabacchi, su una droga potente e letale come il tabacco? Dove sta allora la coerenza di pensiero e che messaggio educativo pensiamo possa arrivare ai nostri ragazzi: se fumi uno spinello sei un delinquente invece se fumi un pacchetto di sigarette contribuisci alle casse dello Stato?

Capisco che in questo momento il Governo abbia come priorità crisi e riforme, ma le scelte etiche che possono fare dell’Italia un Paese più civile in cui vivere soprattutto per le nuove generazioni, non andrebbero sistematicamente rimandate. Spero che il movimento d’opinione mondiale a favore dell’antiproibizionismo, rilanciato dal New York Times, trovi anche qui uno spazio per il dibattito.