Più di due anni di indagini serrate della procura di Milano e dell’Agenzia delle entrate convincono la società irlandese ad aderire all’accertamento. Resta poco chiaro il futuro assetto della multinazionale in Italia

Tanto tuonò, che alla fine piovve il conto del fisco. O, per essere precisi, l’adesione all’accertamento grazie al quale Apple Italia ha chiuso una delle più complesse vertenze tributarie mai affrontate in Italia. A più due anni dall’inizio dell’indagine compiuta sulla struttura italiana della multinazionale guidata da Tim Cook si arriva a una definizione della controversia, affiorata nel novembre del 2013 grazie a un’anticipazione dell’Espresso sulla perquisizione nella sede milanese della società.

Per il fisco italiano, e più in generale per quello europeo, è un passaggio storico: mai finora la filiale italiana era uscita sconfitta dal braccio di ferro con l’Erario e l’unico contenzioso di cui si aveva traccia certa nel nostro paese si rifletteva in una sentenza della Commissione tributaria provinciale di Milano, favorevole all’azienda americana per gli 2004-2006, tuttora pendente in secondo grado.

Se si è arrivati a questo risultato è anche grazie anche al lavoro della procura di Milano, che ha ricostruito la stabile organizzazione della “mela” nel nostro paese con i pm Carlo Nocerino (ora a Brescia) e Adriano Scudieri, coordinati dall’aggiunto Francesco Greco in lizza per il posto di procuratore capo lasciato vacante da Edmondo Bruti Liberati. Resta da comprendere quale sarà l’assetto futuro delle filiali Apple in Italia dopo questo accordo. Una disclosure, in questo senso, potrebbe arrivare con il 2016.

Come anticipato da Repubblica, Apple pagherà al fisco italiano la cifra di 318 milioni di euro che copre le dichiarazioni dei redditi che vanno dal 2008 al 2013. Una cifra lontana dagli 880 milioni di evasione Ires che erano stati contestati alla società dalla procura di Milano nella sua indagine chiusa a fine marzo del 2015 con la formalizzazione di un’accusa per omessa dichiarazione dei redditi (art 5 del decreto 74/2000) nei confronti del manager Michael Thomas O’Sullivan dell’irlandese Apple Sales International (Asi), del legale rappresentante di Apple Italia, Enzo Biagini, e del direttore finanziario Mauro Cardaio.

Le indagini, partite da una prima ricostruzione dell’Agenzia delle Dogane, avevano portato inizialmente a vagliare l’ipotesi di una vera e propria frode fiscale, poi accantonata per scegliere la via dell’omessa dichiarazione. Un’accusa penalmente meno intensa, in quanto punita con una pena che va da uno a tre anni, e che peraltro è stata oggetto di una profonda revisione con uno dei decretoni fiscali varati dal governo Renzi quest’estate ed entrato in vigore ad inizio autunno, che aveva visto la depenalizzazione se le somme vengono saldate prima di un certo step. Ma, per motivi temporali, l’accordo siglato non rientra nella nuova disciplina e per i tre manager indagati tra breve potrebbe scattare il rinvio a giudizio, seppur con una posizione molto alleggerita rispetto a quella ante pagamento. Apple è stata supportata dallo studio Baker & McKenzie per i profili fiscali e da quello Severino per quelli penali.

Non è stata una battaglia semplice: la multinazionale che fu si Steve Jobs si è data un’architettura societaria che le consente una ottimizzazione fiscale a prova di verifica, che trova il suo fulcro in Irlanda per ciò che riguarda le vendite europee. Già questo pone un primo problema, in quanto l’Irlanda è un paese riluttante a fornire informazioni per mezzo di rogatoria internazionale anche verso i paesi aderenti l’Unione europea, con tutte le complicazioni di tempo che questo comporta. Nel 2013 fu proprio il Senato americano a puntare dritto contro l’Irlanda: a chiusura di un’inchiesta parlamentare il famoso senatore repubblicano John McCain disse che questo era il “culmine della creatività fiscale” dato che, ad esempio, l’irlandese Apple Sales International nel 2011 aveva riportato 22 miliardi di dollari di utili ante imposte pagando solo 10 milioni di tasse, ovvero lo 0.05 per cento. Per il senatore democratico Carl Levin Apple aveva trovato il “Sacro Graal dell’elusione fiscale, creando entità offshore che detengono decine di miliardi di dollari, mentre dichiarava di non essere residente da nessuna parte”.

In secondo luogo è la stessa stabile organizzazione un concetto di non semplice identificazione da parte degli inquirenti, che hanno dovuto faticare molto nella ricostruzione degli elementi raccolti con le perquisizioni. Alcune email, inserite nell’atto di chiusura indagini di marzo di quest’anno, lasciavano intendere che l’attività di Apple Italia non fosse solo quella di supporto territoriale di marketing sempre sbandierata e remunerata con una cifra compresa tra 30 e 40 milioni di euro l’anno, che rappresentano il fatturato della filiale italiana negli ultimi anni, ma ben altro. Cifre che consentivano alla società di pagare in Italia qualche milione di euro l’anno di tasse su vendite in realtà miliardarie (solo nel biennio 2010-11 l’imponibile evaso avrebbe superato il miliardo di euro). Una email riportata dal quotidiano la Repubblica e inserita nell’atto di chiusura di indagini di Pilar Pignatelli, allora legal counsel Emea di Apple con sede a Parigi, riporta: “Come sapete, siamo sempre molto attenti che non vi sia nulla nei documenti ufficiali che possa suggerire che società Apple diverse da Asi sono coinvolte nelle vendite in Europa (poiché questo potrebbe mettere in pericolo la nostra struttura fiscale)”.

C’è da dire che un aiuto, inaspettato, è arrivato anche dall’Unione europea che nel giugno 2014 ha aperto un’inchiesta per comprendere se il governo irlandese abbia aiutato indebitamente Apple concedendo un regime fiscale privilegiato e “ad aziendam” incompatibile con i principi dei trattati Ue e con le norme sulla concorrenza. L’indagine riguardava anche Fiat Finance Luxembourg e Starbucks: per queste ultime due l’indagine si è chiusa con due multe. Nei confronti di Apple è ancora aperta. Bruxelles morderà la mela come ha fatto Milano?