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I petroldollari per cominciare. Quelli che servirono negli anni Settanta-Ottanta a Gheddafi per rispondere alle invocazioni degli Agnelli bisognosi di capitali freschi per rianimare l'agonizzante Fiat. Ma soprattuto il petrolio e il gas, con i quali abbiamo continuato a rifornirci anche nei periodi più critici che le relazioni tra i due paesi hanno conosciuto.
Affari continui e spesso combattuti. Cominciati più di un secolo fa con la guerra. Correva l'anno 1911 quando invademmo quelle terre desertiche. Magari, come lo storico Denis Mac Smith sosteneva, principalmente per celebrare i cinquanta anni dell'Unità d'Italia. Invademmo accompagnando l'evento con il ricordo delle antiche conquiste imperiali di Roma e mitizzando il nostro ruolo nel Mediterraneo. Altre potenze conquistavano l'Africa, la Francia, l'Inghilterra, persino il piccolo Belgio si ritagliava un ruolo da grande conquistatore. Potevamo essere da meno? L'Italietta giolittiana decise per il no e così ci imbarcammo per quella avventura. Molto complicata, per la verità, sin dagli esordi.
Le tribù che le truppe tricolori incontrarono sul loro cammino erano certo litigiose e divise. Ma non al punto da sdraiarsi al nostro arrivo. Per farci largo e assicurarci il posto al sole cui aspiravamo usammo la mano pesante e per decenni, da Giolitti a Mussolini, disseminammo di mine il territorio, collezionammo repressioni durissime, esecuzioni brutali, deportazioni di massa (alcune stime fanno ammontare a 100 mila il numero delle vittime libiche causate dagli italiani).
Vero che realizzammo anche importanti opere infrastrutturali, strade, acquedotti. Modernizzammo (o ci provammo) l'agricoltura, ma tutto questo non bastò. Rimase sul campo anche il ricordo della triste alleanza con i tedeschi e delle battaglie contro gli alleati. Perdemmo il controllo del territorio con la sconfitta e l'arrivo degli inglesi e dei francesi. Restarono i nostri coloni, ma fino al 1970, quando il giovane colonnello Gheddafi ripulì il territorio e le pagine di storia rispedendo a casa i 20 mila connazionali residenti e incamerando i loro beni.
Quello che si aprì a quel punto nelle relazioni bilaterali tra Italia e Libia resta un capitolo tanto strano, controverso, quanto originale per i suoi alti e bassi. Il Colonnello per cominciare apre in maniera decisa la questione del risarcimento dei danni che gli italiani avevano provocato prima con l'invasione e poi con la dominazione e la guerra.
E per far capire che non scherzava istituì anche la festa nazionale del 7 ottobre, il giorno della Vendetta. Per decenni, dialogando o scontrandosi con i navigati esponenti della prima Repubblica, da Aldo Moro a Giulio Andreotti, da Amintore Fanfani a Bettino Craxi, Gheddafi ha portato avanti le sue pretese. E se nel 1986 arrivò a sparare anche dei missili sull'isola di Lampedusa, questo non impedì a Craxi di avvisarlo per tempo e salvarlo da un attacco aereo degli Stati Uniti decisissimi a farlo fuori e saldare la partita.
Il contenzioso italo-libico è stato riaperto più volte negli ultimi venti anni. Nel 1998 viene firmato un protocollo che, almeno nelle intenzioni, pare voler chiudere definitivamente il capitolo rognoso della colonizzazione. L'Italia arriva anche a rammaricarsi per le “sofferenze inferte al popolo libico”.
Viene emesso persino un comunicato congiunto e stipulato un accordo che impegna l'Italia a ripulire il territorio libico dalle mine lasciate al tempo dell'occupazione; a ritrovare sul nostro territorio i discendenti dei libici deportati nel periodo bellico; a realizzare importanti opere pubbliche e comunque, con la disponibilità della controparte, a risolvere definitivamente ogni controversia passata. Impegni gravosi, ma che non decollano o che vengono realizzati solo in parte. Così, negli anni successivi Gheddafi torna a reclamare la costruzione di un'autostrada da quasi 2 mila chilometri; ospitalità per i suoi studenti universitari; la collaborazione per importanti esperimenti agricoli.
Si arriva al 2008 quando il Colonnello e il presidente del Consiglio dell'epoca Silvio Berlusconi firmano un trattato di amicizia e collaborazione a Bengasi con il quale, a fronte di un impegno finanziario di circa 5 miliardi per i danni di guerra, la Libia si impegna ad arginare il fenomeno degli imbarchi dalle proprie coste che alimenta il dramma dell'immigrazione clandestina nel nostro paese.
Sembra proprio l'avvio di una fase favorevole e tra una visita e l'altra in Italia (per esempio nel 2009), Gheddafi favorisce come mai aveva fatto il business tra i due paesi: l'Eni intensifica la sua presenza in Libia per sfruttare i pozzi di petrolio e gas; banche e fondi libici investono nella nostra Borsa e rilevano quote importanti di istituti finanziari (Unicredit, Generali, ancora Eni), mentre fiorisce il commercio di armamenti e compagnie come Ansaldo e Impregilo siglano ricche commesse e aprono nuovi cantieri sul suolo africano.
Tutto fila liscio fino al 2011, quando le pressioni europee contro le violenze del colonnello Gheddafi suscitano le proteste crescenti dell'Europa e degli Stati Uniti. Il governo Italiano annuncia la sospensione del Trattato e gli eventi precipitano: l'Onu e i suoi membri mettono in campo “Odissey Dawn”, operazione militare alla quale l'Italia si associa e che innesca gli eventi che portano alla caduta e alla morte dello stesso Gheddafi (20 ottobre 2011).
Si plaude a quel punto alla democratizzazione della Libia sperando nella crescita di una classe dirigente in grado di garantire sicurezza e sviluppo. Le cose vanno invece in maniera diversa. La realtà tribale e le divisioni che da sempre caratterizzano il Paese prendono il sopravvento. Non solo la Libia manca l'occasione dell'ammodernamento e dello sviluppo. Divisa com'è finisce preda degli scontri e delle violenze estremistiche. Tanto che adesso l'Isis conquista facilmente spazi e territori e, come lama nel burro, in quelle divisioni affonda la spada dell'Islam più radicale e violento. La stessa che annuncia la prossima invasione di Roma.