Quei video di esecuzioni cruente dell'Isis e la responsabilità dei media davanti all'orrore

Se lo stato Islamico fa leva sul rimbalzo su social, stampa e tv, la domanda che bisogna porsi è cosa fare di quella propaganda. Non solo dell'orrore che contiene, facilmente sfruttabile (e sfruttato) per generare click. Ma anche dei messaggi che trasmette indipendentemente dalle immagini di violenza

Dopo le decapitazioni, una gabbia di fuoco. L'orrore che lo Stato Islamico dissemina online in funzione propagandistica non conosce sosta. Anzi, con la barbara uccisione del pilota giordano Moaz al-Kasasbeh, muta ancora forma: un video di 22 minuti, prodotto con una perizia maniacale al punto di includere, scrive su Twitter l'analista di NBC e Flashpoint Global Partners, Evan Kohlmann, “effetti speciali che richiedono almeno diversi giorni per essere creati” (e infatti l'esecuzione risalirebbe a un mese fa), e uno sforzo tale da giustificare forse “la scarsa qualità dei recenti video con gli ostaggi giapponesi” Kenji Goto e Haruna Yukawa.



Kohlmann nota poi la presenza di sottotitoli selezionabili in inglese, francese e russo.



L'obiettivo, insomma, sembra esserci sui media e dunque nell'opinione pubblica occidentale e insieme estendere la minaccia che accompagna e idealmente replica le fiamme che hanno bruciato vivo il tenente giordano catturato lo scorso 25 dicembre, scrive il New York Times, “a tutte le nazioni arabe e agli altri paesi che combattono i miliziani in Siria”; non a caso gli jihadisti minacciano ulteriori 50 bersagli umani dell'aviazione giordana, indicandone in video non solo nomi e cognomi ma anche, tramite le mappe di Google, l'indirizzo di casa; la ricompensa  per la loro eliminazione è di 20 mila dollari.

Ma se quella di ISIS, come ogni propaganda contemporanea, fa leva sul rimbalzo sui media tradizionali – oltre che sulla viralità dei social media, dove peraltro gli jihadisti devono affrontare le rimozioni sempre più celeri dei loro contenuti da parte di YouTube e Twitter secondo le loro policy – significa che sono i giornalisti ad avere una grossa responsabilità nei confronti della domanda, difficilissima, su che fare di quella propaganda.
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Terrorismo islamista in rete, la censura non serve
4/2/2015


Non solo dell'orrore che contiene, facilmente sfruttabile – e sfruttato – per generare click: dei messaggi che trasmette anche indipendentemente dalle immagini di violenza.

Se è arduo dunque formulare una risposta corretta e inscalfibile su che fare della propaganda di ISIS, meno arduo è dire cosa non farne. Per esempio, replicare le orme del Giornale, che a seguito della divulgazione - tramite provider francesi e a San Francisco, e a partire dal principale forum jihadista online, nota Kohlmann - del video con il rogo di Kasasbeh lo ha allegato in versione integrale, senza tagli, avvertenze, spiegazioni né contestualizzazioni, incorporandolo sul suo sito direttamente da YouTube.

Il servizio di condivisione video l'ha prontamente rimosso, rendendolo indisponibile, ma il quotidiano di Alessandro Sallusti ha replicato mostrando un fotogramma del pilota in fiamme sulla prima pagina cartacea, il giorno seguente.

Il Tempo e Il Mattino hanno fatto altrettanto (Libero e il Secolo XIX si sono fermati un fotogramma prima), mentre tutte le principali testate italiane – Stampa esclusa – hanno deciso di raffigurare Kasasbeh negli abiti da prigioniero, non in quelli da civile e quindi da uomo libero.

Altri hanno avuto un atteggiamento diverso. Servizio Pubblico ne ha divulgato una parte, spiegando la scelta con le parole di Domenico Quirico: “La coscienza passa sempre attraverso la conoscenza e non la negazione, censura o aggiramento della realtà”; il sito del Fatto Quotidiano ha specificato invece di non intendere pubblicarlo.

All'estero, spicca l'incredibile ipocrisia del New York Daily News, che censura le vignette di Charlie Hebdo su Maometto e poi pubblica le immagini del giordano in fiamme. Scelte discutibili, e discusse.

Fuori discussione, tuttavia, è che farsi semplice cassa di risonanza dei video propagandistici di ISIS risponde esattamente alla strategia dei terroristi: fomentare l'odio, le generalizzazioni, l'identificazione del loro progetto omicida e imperialista con quello dell'Islam tutto (naturalmente è falso, e le migliaia di tweet con l'hashtag #ISIS_are_NOT_muslims su Twitter dimostrano che i primi a inorridire e dissociarsi sono i musulmani stessi) e dunque pervenire a uno “scontro di civiltà” che consentirebbe al Califfato di provare a ergersi più credibilmente a baluardo di una intera comunità di 1,6 miliardi di credenti nel globo.

Perché, come ricorda lo studioso della materia J.M. Berger in un tweet dopo il video di Kasasbeh, “la reazione (di sdegno, rabbiosa di queste ore, ndr) è il punto del video, non un effetto collaterale involontario”.

Meglio non pubblicare che pubblicare indiscriminatamente tutto, insomma, anche se resta poi la questione – centrale e terribile – di come imparare ad affrontare e dunque neutralizzare quella violenza e quella propaganda in un momento storico in cui i suoi canali di diffusione sono molteplici ed esulano, in massima parte, dal controllo dei media tradizionali.

Dire, come ha fatto The Independent dopo la decapitazione di Alan Henning, "le notizie, non la propaganda" è corretto, ma difficilmente basterà a risolvere il problema. Gli studiosi parlano di creare “contro-narrative” a quella jihadista: la Francia ci ha recentemente provato con un sito apposito  ma non è semplice, prima di tutto perché non è detto che la reazione riesca a diffondersi come l'azione dei terroristi, e poi perché non è chiaro quanto la strategia in sé sia efficace.

Nel frattempo, la diffusione o eliminazione di quei contenuti resta nelle mani delle condizioni di utilizzo delle rete sociali – non sempre coerenti non sempre chiare, e mai sotto il nostro controllo. La domanda è di quelle che ci gettano nell'abisso dei dilemmi morali: è giusto lasciare ai cittadini la possibilità di scegliere se vedere quella propaganda o meno? Se sì, quali strumenti i media e la classe dirigente sono in grado di fornire loro per interpretarla e non finirne vittima? E quali e quante informazioni preziose perdiamo rimuovendo il materiale jihadista da Internet, magari con una celerità tendente alla cancellazione istantanea, come vorrebbero i principali leader europei dopo i massacri di Parigi?

Nei giorni scorsi un gruppo di ricercatori dell'Ontario ha tracciato, proprio grazie ai suoi tweet geolocalizzati, i movimenti di una terrorista canadese accorsa al fronte, a Kobane, e da lì ne ha dedotto ruolo e relazioni.

Che fare della barbarie e del proselitismo, insomma, quando possono essere utili a sconfiggere barbarie e proselitismo? Mentre ci accorgiamo che le risposte mancano, ISIS domina il nostro immaginario e il nostro ambiente mediatico con abilità e cinismo. E non c'è “potere speciale” o “legge emergenziale” che possa porvi rimedio.        

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