Il mercato del pallone e dei suoi campioni è un esempio di concentrazione: due terzi del denaro speso dai club dei cinque campionati più ricchi, dal Real Madrid al Paris Saint Germain, finisce all'interno della cerchia dei Big-5. Una soluzione per dare ossigeno ai piccoli? Premiare chi scopre e alleva i giovani talenti

Mettiamola così: poche istituzioni al mondo avrebbero bisogno di un Antitrust come la Uefa. Economicamente il calcio europeo non è mai stato meglio prima d'ora, ma lo squilibrio tra pochi grandissimi club e tutti gli altri non è mai stato così ampio. E le centinaia di milioni che Real Madrid, Barcellona, Paris Saint Germain e Manchester United investono ogni anno – solo per citare i top club più spendaccioni – finiscono soprattutto nelle casse di club altrettanto o poco meno ricchi.

Il Cies, il centro studi svizzero sul calcio con sede a Neuchatel, ha fatto le pulci alla football economy europea, concentrandosi come sempre sui cosiddetti “top-5” cioè i cinque campionati europei più importanti: Premier League inglese, Liga spagnola, Bundesliga tedesca, Ligue 1 francese e (ma per quanto ancora?) la nostra Serie A.

Banchetto per pochi, briciole per molti. Nell'attuale stagione i 98 club che militano nei cinque campionati hanno speso complessivamente 8,6 miliardi di euro per comporre le proprie rose. Il 25 per cento in più rispetto ad appena cinque anni fa, quando erano 6,9 miliardi. La cifra comprende i soli costi dei cartellini e tiene conto delle spese sostenute anche negli scorsi anni per calciatori che giocano tutt'ora nei club. Ad esempio i 94 milioni spesi dal Real Madrid per Gareth Bale nell'estate 2013 si sommano ai 94 spesi per Cristiano Ronaldo nell'estate del 2009, entrambi ancora in blanco.

Gli inglesi fanno la parte dei cannibali con 3,4 miliardi. In pratica il 40 per cento del potere d'acquisto nei cinque campionati è in mano alla Premier. La Serie A si piazza, a sorpresa, al secondo posto con 1,6. Dietro ci sono Liga (1,4), Bundesliga (1,10) e Ligue 1 (1,05). In cinque anni italiani e spagnoli sono gli unici a non essersi mossi di un centimetro: il calciomercato dei due campionati è rimasto su valori pressoché identici, il segno di come la crisi economica nei due Paesi abbia investito anche l'industria calcistica.

Italiani, più poveri ma meno ingiusti. Come sempre, le cifre complessive non raccontano tutta la verità. E per evitare di fare la media di Trilussa, il Cies ha calcolato – per ogni lega – quanto incide il potere di spesa dei cinque club più ricchi nell'economia dell'intero campionato.

Le cifre restituite da Liga e Ligue 1 mettono le vertigini: in Spagna l'86,6 per cento delle somme è stato movimentato da questa stretta cerchia (ma sono Real Madrid e Barcellona a fare la differenza), mentre in Francia è il 78,8 per cento, con Psg e Monaco che si comportano da miliardari in un mercatino rionale. La Germania sta prendendo una piega simile (dal 58 per cento di cinque anni fa si è arrivati al 67 per cento) mentre la sperequazione è più moderata in Serie A e in Premier League, dove i cinque “Paperoni” hanno movimentato il 60 per cento degli investimenti.

In questi due campionati sono (quasi) tutti sulla stessa barca. Solo che in Italia si tratta di un canotto rattoppato, mentre in Premier League si sta comodi su una nave da crociera. E il nuovo contratto televisivo 2016-2019 con Sky Uk non farà che aumentare il benessere generale, visto che alle società di Premier andranno 7 miliardi di euro in tre stagioni.

L'asticella è sempre più alta. Se pochi club investono cifre sempre maggiori, l'alta classifica è un club il cui ingresso è sempre più selezionato ed esclusivo. Il Cies ha calcolato che per piazzarsi ai primi tre posti dei Top-5, oggi sono necessari investimenti in calciatori per 278 milioni di euro. Cinque anni fa erano 189.

Ma anche in questo caso il calcio italiano appare il più competitivo, nonché l'unico a seguire una tendenza opposta. Se nel 2009-2010, per salire sul podio della Serie A occorrevano investimenti per 214 milioni di euro, oggi ne bastano 198. Il calcio si è impoverito e soprattutto non è stato in grado di rinnovarsi, ma in assenza di sceicchi dalle mani bucate non ci sono club che “drogano” la competizione. Almeno, non nella misura in cui accade in Francia, Inghilterra e Spagna.

I soliti noti. La macchina da soldi del calcio europeo d'elite corre a tutta birra, il problema è che a beneficiarne sono sempre gli stessi. È come una partita di giro: due terzi del denaro speso dai club dei cinque campionati più ricchi finisce all'interno della stessa cerchia dei Big-5.

Appena il 6% arricchisce le divisioni inferiori. Un dato sconfortante perché proprio nelle Serie B d'Europa giocano i club-serbatoio, quelli che danno fiducia ai giovani calciatori, li fanno maturare e infine li rivendono alle grandi squadre. L'analisi del Cies dice che questo modello non funziona più, fagocitato dalle commissioni mostruose percepite da agenti e società di investimenti. Basta pensare al caso Neymar: il Santos (dov'è cresciuto calcisticamente) deteneva meno della metà del cartellino dell'asso brasiliano. Per portarlo in blaugrana, il Barcellona ha versato una montagna di milioni (l'esatto ammontare sta cercando di ricostruirlo la magistratura spagnola) a diverse società di investimenti. Le cosiddette Tpo (third party ownerships) che la Fifa ha messo al bando dal primo maggio 2015.

Anche per questo, a margine dello studio, il Cies ha lanciato una proposta: introdurre un meccanismo di compensazione per i club che allevano e vendono giovani talenti. Il centro studi ipotizza, per tutti i club che partecipano alla crescita di un calciatore, un premio da calcolare in base al numero di presenze. Un esempio: un calciatore gioca 75 partite con il club C, poi viene ceduto a un club B, di livello superiore. Qui gioca altre 25 partite prima di trasferirsi ad A, un top club. Il club di origine, C, otterrebbe il 75 per cento della compensazione mentre B, che lo ha tenuto in squadra per meno tempo, il 25 per cento.