Manager da aziende hitech e autisti che si arrangiano. Ecco 
i protagonisti della sfida alla mobilità. 
Che continuano a crescere di numero, nonostante gli scontri (Foto di Alessandro Grassani per l'Espresso)

Uber, viaggio nella startup delle polemiche Ecco come si lavora nell'app alternativa ai taxi

Uber, cosa sei? Icona del turbo-capitalismo che infrange le regole o bandiera della trendissima cultura della condivisione che fa risparmiare l’utente-consumatore? Di sicuro, è la parolina che fa infuriare i tassisti di tutto il mondo e in particolare delle città - ormai si avvicina quota trecento - in cui il servizio di taxi alternativi è sbarcato. Uber in realtà non è una compagnia di vetture, bensì una “app” - che è l’abbreviazione del termine “applicazione”.

Dunque, una “cosa” che si scarica sullo smartphone attraverso la quale il cliente può farsi caricare da una macchina “Ncc”, sigla, stavolta italiana, che significa Noleggio con conducente, oppure da un autista senza alcuna licenza ma intruppato nel servizio UberPop. Nello slang americano, uber vuol dire super, e anche cool, equivalente al nostro “figo”. Un nome un po’ da bauscia, direbbero a Milano, e in effetti quelli di Uber un po’ bauscia lo sono, per esempio quando dicono che vogliono cambiare la mobilità urbana e che le rivoluzioni prima si fanno e poi le si regolamenta, eventualmente.
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La bufera, in Italia, comincia nel 2013 a Milano, col debutto del servizio Uber Black, destinato agli Ncc: si scatena la rabbia dei conduttori delle auto bianche, che lo considerano un esercizio abusivo della professione. La furia arriva alle stelle quando, l’anno scorso, i californiani mettono in campo UberPop, declinazione di massa dell’idea, una trovata che permette a chiunque di diventare un autista “Uber”, usando la propria macchina.

A metà febbraio i tassisti sempre più esasperati bloccano Torino con una manifestazione nazionale.
Dentro il loft-sottotetto dove ha sede il quartier generale italiano di Uber, l’avversione tassinara si avverte, certo, ma in forma attutita. La presenza degli Uber uffici non è sbandierata, per ragioni di sicurezza, ma c’è un certo via-vai.
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Per tre volte alla settimana, è qui - nella zona della “movida del design”, a due passi dai Navigli - che si vive uno dei momenti topici dell’Uber business: la riunione con i nuovi autisti Pop, che - se i documenti sono a posto - escono dall’incontro abili e arruolati. I dodici dipendenti di Uber in Italia sono tutti giovani e laureati in economia o ingegneria, anche se il fondatore, Travis Kalanick (38 anni), laureato non è.

Cooptati attraverso Linkedin, il network online dei profili professionali, o il passaparola. «Guadagniamo quasi tutti meno rispetto al precedente impiego», racconta la capa delle attività in Italia, Benedetta Arese Lucini, la ragazza più odiata dai tassisti nostrani. Trentun anni, laurea in Bocconi e master alla New York University, inizia alla Morgan Stanley a Londra e quand’è al Credit Suisse, a San Francisco, partecipa al collocamento in Borsa di startup innovative, come Groupon. I dodici apostoli di Uber sono attirati non solo dalla sfida ma anche dalle stock option. Perché prima o poi Uber in Borsa ci andrà.

«Siamo in dodici ma entro fine anno saliremo a trenta», promette Benedetta. Perché in Italia il ritmo di crescita è tra i più rapidi al mondo. Oggi il grande ufficio open space è pieno perché ci sono anche i ragazzi che seguono le altre città, come Carlo, ingegnere, general manager per Roma. Era l’unico italiano di Better Place, la visionaria società di Shai Agassi, il “cavaliere elettrico” che voleva - pure lui - trasformare la mobilità, punteggiando il pianeta di stazioni di ricarica per auto elettriche, con tanto di cambio di batterie al volo. Non ce l’ha fatta, era arrivato troppo presto. E presto cominciano a lavorare i giovanotti di Uber. «In pratica devi essere sempre sul pezzo, perché un problema o una scelta da fare possono palesarsi a qualsiasi ora, anche nel week end o in vacanza», sostiene Benedetta e gli altri annuiscono, continuando a smanettare sui computer.

Ma che fate, tutto il giorno? I manager delle “operations”, come le chiamano qui, assoldano i nuovi autisti e si preoccupano che nelle città presenze e viaggi siano ben organizzati, insomma che tutto fili liscio. Uno di loro è Maurizio, ex ingegnere del Comau, costruttore dei robot di fabbrica del gruppo Fiat. In fondo al salone sta catechizzando una decina di autisti appena ingaggiati. Quelli destinati al marketing, invece, individuano le nuove aree in cui operare - presto toccherà al Sud, Sardegna e Sicilia comprese - studiano iniziative promozionali e partnership.

Di fianco alle scrivanie, per esempio, sono accatastate decine di confezioni di Holy, bevanda energetica con tre calorie. «Le diamo ai driver per offrirle ai clienti», spiega Alice, che prima aveva una società di e-commerce di prodotti di design italiani tutta sua (che seguita a gestire). E Benedetta ricorda che a Sydney Uber ha coinvolto le barche, in India sta provando ad assoldare persino i tuc-tuc (i mitici tre ruote che svicolano nel traffico caotico) e che lei aveva provato, l’anno scorso, a tirar dentro i gondolieri, durante l’iniziativa Digital Venice. «Ma mi sono sembrati ancora più chiusi dei tassisti», confessa.

«Travis, il boss, afferma che ogni general manager è come un piccolo imprenditore, nella sua area, perché c’è grande libertà nel decidere come sviluppare il business», dice Carlo. Il lunedì è la giornata più dura. «Perché siamo tutti valutati sulla base del lavoro settimanale e i giudizi arrivano ogni lunedì. C’è una vasta attività di “reporting”, dobbiamo spiegare i numeri che facciamo», spiega ancora l’ex di Better Place.

Dieci metri più in là, ecco i prossimi driver di Uber Pop a Milano. Sono in nove, quelli di venerdì 20 febbraio. Si parte dai 21 anni (età minima richiesta) e c’è pure un signore che ha quarant’anni in più, è già “driver” da otto giorni, e oggi è venuto nel fortino Uber perché da lui, in provincia, non c’è troppa richiesta. Maurizio, general manager per le operations, spiega subito il perché: la domanda si concentra in città, all’interno della circonovallazione, e di sera.

Simone è il più giovane ma ha la vettura più chic. Ventun anni, assicuratore, ogni settimana macina 500 km con la Mercedes Classe C. «Visto che sono già in giro a vendere polizze, mi metto online e vediamo che succede». Dario possiede una piccola azienda artigiana, organizza eventi e adesso vuol fare anche l’autista Pop. È un fan della condivisione: «Uso spesso BlaBlaCar, la community dei passaggi su lunghe distanze, guidando la mia macchina ma anche da passeggero. E mi servo pure della piattaforma Fubles per trovare gente con cui giocare a calcetto». Dario non glielo dirà, agli amici tassisti, che ha deciso di passare col “nemico”. «Se lo scoprono sai come s’incazzano?», dice ridendo.

Anche Ulysses, brasiliano, ama il calcio e tifa Milan e Flamengo. Faceva il camionista ma è rimasto a piedi: «Spero di ingranare, così farò l’autista UberPop a tempo pieno». Marco, invece, immagina 3-4 ore da autista serale sulla sua Stilo. È dipendente di un centro commerciale ma ha la moglie a casa, la figlia che studia e punta ad arrotondare: «Volevo fare il tassista: mi hanno chiesto 180 mila euro per la licenza, assurdo».

La maggior parte di quelli che si presentano, l’opportunità l’hanno conosciuta tramite amici o scovata su Internet. Il ragazzo col divaricatore all’orecchio è qui spinto dalla moglie. «È entusiasta, usa spesso Uber per fare la spesa o quando è in giro con i cani. È svedese e qualche volta i tassisti, vedendo che è straniera, hanno provato a fare i furbi con il tragitto o il resto». Pure lui lavora in un centro commerciale, e ha già un secondo lavoretto, il buttafuori nei locali di musica live.

Da quelli pronti all’esordio a quelli già in pista. Puntiamo su Torino, che insieme a Milano, Padova e Genova è una delle città italiane in cui è attivo UberPop. Per sentire come se la passano, non diciamo che siamo giornalisti. Il primo passaggio per andare dalla Gran Madre alle Molinette. La Espace ci mette due minuti ad arrivare. Paolo è stato uno dei primi, sotto la Mole, a farsi UberPop: «Guido nel fine settimana e di lunedì, negli altri giorni no perché ho un altro lavoro». Si guadagna bene? «Non molto. Lo faccio perché è piacevole, mi pago la benzina e un po’ di spese. È okay se ti accontenti di 50/70 euro a settimana».

Nel giro di quattro mesi le corse di Paolo sono quasi quadruplicate. Prima stava fermo anche un’ora, adesso invece le chiamate sono ravvicinate. Problemi con i tassisti? «Non ho avuto contatti particolari, anche perché mi tengo lontano dalle zone più problematiche, tipo quelle intorno alle discoteche». Alle sette di sera, in effetti, vicino alla stazione di Porta Susa di veicoli Uber ce ne sono pochini, però Davide ci mette tre minuti a presentarsi.

«Proprio davanti ai taxi è meglio di no», anche lui è un “veterano”. «I tassisti? Ti guardano, arrivano, ti fotografano la targa. Uno mi ha anche minacciato: “Ti faccio arrestare!”. Lo fanno per cercare di intimidirti, ma non c’è nessun rischio. È tutto tranquillo». Minimizza. Per Davide, che oggi non ha un impiego fisso, l’avventura con Uber potrebbe trasformarsi in una professione: «Le richieste crescono e gli autisti anche, adesso a Torino saremo quasi 600. Io sono sempre connesso: cento euro al giorno li tiri su, sgobbando otto-dieci ore. Togli venti euro di benzina e i venti euro da lasciare a Uber e rimangono 60 euro puliti. E il bonifico arriva regolarmente, ogni settimana». Neanche il tempo di accostarsi e la “app” lo convoca per un’altra corsa.

Eccoci nel tardo dopo cena, il momento buono per scarrozzare chi va per locali. Nevica. «Due sgommate?», scherza Enrico. «Dieci giorni da Uber e non sai quante belle ragazze sono già salite su questa macchina! Situazione ideale, perché loro sanno già come ti chiami e non c’è neppure bisogno di scambiarsi il numero di telefono». Ideale anche per l’incidente diplomatico: «Qualcuno aveva disegnato due cuoricini sul finestrino dietro: la mia ragazza li ha visti è s’è arrabbiata di brutto».

Enrico è uno dei tanti Uber driver dalla doppia vita. Bancario di giorno, autista di notte. «Non so ancora se è conveniente ma l’esperienza mi piace, si conosce un sacco di gente interessante. Oggi abbiamo fatto un mini-corso su come comportarci con ciechi e ipovedenti. Uber s’è convenzionata con un’associazione e quando chiama una persona con problemi alla vista sul display compare il simbolo “+”». Meglio l’approccio buonista che quello da Don Giovanni. Maurizio il manager lo ripete con una certa enfasi, a quelli che stanno per cominciare: «Ragazzi mi raccomando, non fate i cascamorti con le ragazze, siate seri». A New Delhi, in India, un episodio di violenza sessuale compiuto da un driver UberPop ha bloccato il servizio per mesi. Una storiaccia che è stata usata spesso per attaccare l’immagine della multinazionale. A San Francisco non vogliono che si ripeta mai più.

(ha collaborato Fabio Lepore)

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