Il presidente Mattarella si è tagliato lo stipendio e ha imposto il tetto dei 240 mila euro ai dipendenti del Quirinale. Mentre i nostri giudici costituzionali guadagnano da 360 mila a 500 mila euro l'anno

Se vale il proverbio “non c’è due senza tre”, adesso tocca alla Corte costituzionale autoridurre gli stipendi. Il presidente della Repubblica, Sergio Mattarella, dal 27 febbraio scorso guadagna 185 mila euro lordi l’anno, perché si è sottratto dalla retribuzione di primo cittadino dello Stato, di 240 mila euro, i 55 mila della sua pensione di professore universitario. Altre pensioni il presidente non ne ha, perché ha rinunciato a ricongiungere al suo attuale trattamento di quiescenza i nove anni trascorsi alla Consulta, mentre fra sette anni, a fine mandato, diventerà senatore a vita. Nel suo primo decreto presidenziale, Mattarella ha disposto che nessuno, al Quirinale, potrà guadagnare più dei 240 mila euro del tetto Renzi, e che nessuno potrà cumulare stipendio e pensione. Il divieto di cumulo, introdotto già alla fine del 2013 per la pubblica amministrazione, non era però vincolante per gli organi costituzionali.

Quanto alle retribuzioni dei dipendenti del Parlamento, alla fine dello scorso settembre gli uffici di presidenza di Camera e Senato annunciarono uno storico taglio, anche qui per decisione autonoma. Il tetto a 240 mila euro non sarà unico, ma articolato in sottotetti. In più non concorrono a formarlo gli oneri previdenziali e l’indennità di funzione, mentre chi lo raggiunge – se meritevole – potrà godere di un ulteriore incentivo di produttività. Non scatta infine tutto in una volta, come per pubblica amministrazione e Quirinale, ma in quattro distinte annualità: una marcia di avvicinamento che si concluderà il primo gennaio 2018. Ma pur, con tutte queste deroghe, è innegabile che dei passi concreti siano stati compiuti.
Inchiesta
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Ci si aspetta ora che sia la Consulta a fare la sua parte. Anche perché i suoi giudici, che percepiscono 360 mila euro l’anno, e il suo presidente, che con l’indennità di funzione arriva a 432 mila euro lordi, sono i più pagati del mondo. Lo dimostra una ricerca dell’economista dell’Università Bocconi Roberto Perotti, attualmente esperto di Palazzo Chigi. I giudici britannici percepiscono, in sterline, l’equivalente di 235 mila euro lordi, in Canada siamo all’equivalente di 217 mila euro, 234 mila per il presidente. Negli Stati Uniti il compenso in dollari del presidente equivale a 173 mila euro e quello dei giudici è inferiore di 7 mila euro. Meno della metà, quindi, di quanto mediamente guadagnino i quindici giudici italiani (attualmente tredici, perché il Parlamento ne deve ancora nominare due).

Il bello è che, fino a tutto aprile del 2014, gli stipendi della Corte erano ancora più alti: 467 mila euro i giudici e ben 561 mila il presidente. Sono scesi da maggio ai valori attuali per una semplice ragione: per legge, la retribuzione di un giudice della Consulta è pari a quella del primo presidente di Cassazione, aumentata del 50 per cento. Ma quest’ultima, col “tetto Renzi”, è scesa da 311 mila a 240 mila euro. Rispetto a un giudice, il presidente guadagna un ulteriore quinto in più. Dopo l’esempio dato da Mattarella, non si sentirà obbligato l’attuale presidente della Consulta Alessandro Criscuolo ad autoridurre il suo stipendio e quello dei suoi colleghi?

C’è poi la delicata questione del cumulo retribuzione-pensione. Almeno sei giudici, nella composizione dell’attuale Consulta, ne godono. I loro introiti effettivi superano dunque in vari casi i 500 mila euro. Secondo notizie di stampa che risalgono alla primavera del 2014, tuttora non smentite, lo stesso Alessandro Criscuolo godrebbe di stipendio e pensione, mentre due giudici, Giuliano Amato e Paolo Grossi, dopo la nomina avevano rinunciato alla pensione.

Per la verità, la legge 87 del marzo 1953, che ha fissato il compenso del giudice costituzionale, parametrandolo sul primo presidente di Cassazione, all’articolo 12 prevede testualmente che tale compenso “sostituisce ed assorbe quello che ciascuno, nella sua qualità di funzionario di Stato o di altro ente pubblico, in servizio o a riposo, aveva prima della nomina a giudice della Corte”. Divieto di cumulo, dunque.

Fu una sentenza del Consiglio di Stato, ventiquattro anni dopo, a trovare la scappatoia. Relatore, Vincenzo Caianiello, che sarebbe diventato poi giudice e addirittura presidente della Corte costituzionale. Il Consiglio, quel 27 maggio del 1977, ragionò così: nel 1965 è stata sancita la cumulabilità, per gli statali, di stipendio e pensione. E dunque le stesse norme debbono valere anche per i giudici costituzionali. Considerati, evidentemente, alla stregua di semplici dipendenti pubblici. Ma se è così, ora che il divieto di cumulo è tornato, ed è stato anche confermato da un decreto Renzi-Madia, la Corte potrebbe trarne le conseguenze. Sarebbe un atto di grande saggezza giuridica, che gli italiani certamente apprezzerebbero. E, assieme al divieto di cumulo, sulla scia di quanto ha deciso il presidente della Repubblica, sarebbe opportuno introdurre anche nel palazzo di fronte al Quirinale, per giudici e funzionari della Consulta, il tetto massimo retributivo di 240 mila euro.