Migranti, il cardinale replica al nostro appello "Chiesa valuta ipotesi di un canale umanitario"

Dopo l'intervento di quattro preti di prima linea raccolto da “l’Espresso” parla il cardinale presidente del Pontificio consiglio della pastorale per i migranti

Antonio Maria Vegliò
La proposta di quattro preti di prima linea, lanciata la scorsa settimana da “l’Espresso”, ha ora il sostegno di un cardinale. Antonio Maria Vegliò, presidente del “Pontificio consiglio della pastorale per i migranti”, ha valutato con interesse l’appello di don Luigi Ciotti, don Virginio Colmegna, don Gino Rigoldi e padre Alex Zanotelli affinché sia la Santa Sede ad aprire un corridoio umanitario, concedendo visti d’ingresso ai profughi ed evitando loro la traversata del deserto libico e del mare.

Una proposta indirizzata a papa Francesco che, all’inaugurazione di Expo 2015, ha ricordato «i volti di milioni di persone che hanno fame». Settemila volti si sono aggiunti negli ultimi giorni portando a quarantamila il numero dei profughi già sbarcati in Italia dall’inizio dell’anno. Tra loro 369 persone, molte donne incinte e 45 bambini, sono stati salvati lunedì dalla nave del Moas, la stazione d’aiuto in mare per i migranti: un’operazione privata di Malta, di cui è direttore generale Martin Xuereb, 47 anni, capo delle Forze armate maltesi quando, l’11 ottobre 2013, l’assenza per cinque ore di decisioni del suo comando lasciò annegare oltre 260 siriani, tra i quali almeno 60 bambini.

È un dramma continuo. E nessuno può vederne la fine. Ma se Italia, Francia, Germania, Svezia e tutta l’Ue vengono confrontate con gli sforzi di Turchia, Giordania, Libano e altri Paesi più vicini alle crisi umanitarie, l’emergenza che sta dando fiato alla Lega di Matteo Salvini e alle destre europee è soltanto una piccola goccia. «L’Europa deve cominciare a rendersi conto che questo è solo l’inizio», è la previsione pessimistica di padre Zanotelli, uno dei sostenitori dell’appello al papa.

«Ho letto la proposta con interesse», dice a “l’Espresso” il cardinale Vegliò, di fatto il “ministro dell’immigrazione” del Vaticano: «I suoi vari aspetti, però, necessitano di approfondimenti poiché la sua realizzazione presenta elementi che devono essere studiati. In ogni caso, l’obiettivo che la Chiesa tenderà a raggiungere sarà la tutela della vita umana, la salvaguardia e la promozione della centralità e della dignità di ogni essere umano».

Non è vero che il problema sia esclusivamente a carico dell’Italia. L’Alto commissariato delle Nazioni Unite per i rifugiati (Unhcr) calcola che 219.000 persone nel 2014 abbiano attraversato il Mediterraneo in cerca di protezione: 170mila sono arrivate in Italia, ma altre 43.500 sono entrate in Grecia. Da noi sono dunque sbarcati 2,8 stranieri ogni mille abitanti, la maggior parte dei quali prosegue verso altri Paesi. In Grecia sono invece 3,9 ogni mille residenti, tenendo conto però che su Atene pesa anche un tasso di disoccupazione del 25,7 per cento contro il 13 per cento in Italia. Il mal comune non aiuta. Ma dovrebbe spingere verso politiche congiunte: ad esempio una richiesta di revisione del regolamento di Dublino, che obbliga i profughi a rimanere nel primo Paese che toccano. E missioni diplomatiche Ue nei Paesi in cui la fuga ha origine.

I 219 mila sbarcati non dovrebbero essere una catastrofe nell’economia dell’Unione Europea: se dividiamo il loro numero per i 507 milioni di abitanti dell’Ue otteniamo il risultato di 0,4 stranieri ogni mille abitanti. Quanto fa lo 0,4 di un uomo, una donna, un bambino? Questa è la reale proporzione degli sbarchi del 2014 che spinge l’Europa molto indietro nella classifica mondiale. Secondo i dati dell’Unhcr, il Pakistan ospita 1,6 milioni di rifugiati afghani. Seguono il Libano (1,1 milioni di siriani che si aggiungono ai palestinesi), Iran (982.000 profughi), Turchia (824.000), Giordania (737.000), Etiopia (588.000), Kenia (537.000) e Ciad (455.000). In Europa si trasferisce solo una minoranza: un milione e 700 mila rifugiati, 3,3 profughi ogni mille abitanti. Un numero che impegna prevalentemente cinque Paesi sui 28 dell’Unione: Germania, Svezia, Francia, Italia, Regno Unito. Gli altri stanno a guardare.

Il piccolo Libano sopporta un rapporto di 247 rifugiati ogni mille abitanti: come se in Italia arrivassero quasi 20 milioni di profughi in tre anni. Malta 23 ogni mille abitanti, il record europeo. La Svezia 12. Ungheria 4,3. Austria 3,3. L’Italia, tra gli ultimi, appena 1,26. Le proporzioni non indicano la soluzione. Ma almeno aiutano a dare una dimensione ai problemi. La maggior parte dei profughi sbarcati in Italia continua il viaggio verso il Nord Europa. Oppure va a nascondersi nelle nuove baraccopoli italiane alla ricerca di opportunità di lavoro ormai inesistenti. Tra i 170.000 arrivati l’anno scorso e i 40mila del 2015, sono meno di 70mila gli ospiti delle strutture di accoglienza allestite dalle prefetture. Il resto è andato all’estero. O si è disperso sul territorio: questa sì, è una bomba umanitaria che prima o poi potrebbe presentarci il conto.

Di fronte alla ritirata dei governi europei, organizzazioni come “Medici senza frontiere” hanno deciso di soccorrere i profughi con operazioni finanziate da privati. Quella in corso davanti alla Libia è stata messa in campo dal “Moas-Migrant offshore aid station” di Malta, un’iniziativa fondata dall’imprenditrice calabrese Regina Catambrone, con il marito americano e l’aiuto di amici ed esperti. Tra loro, proprio Martin Xuereb, che nel frattempo si è congedato dalle forze armate e ora partecipa al Moas nel delicato ruolo di direttore generale dei soccorsi. Il pomeriggio della strage, l’11 ottobre 2013, dopo cinque ore di continue chiamate con il satellitare, i 500 profughi siriani a bordo del peschereccio vedono finalmente un aereo militare di Malta. Ma è completamente inutile al loro recupero. In una successiva intervista in tv, il premier maltese Joseph Muscat racconta che il comandante Xuereb nelle stesse ore lo chiama per chiedergli cosa fare: «Stiamo vedendo le persone affogare una dopo l’altra». E Muscat aggiunge di avergli risposto: «Ascolta, dimentica tutte le norme e le leggi. Raccoglile e portale a Malta». Se in quelle cinque ore di inutile attesa, Xuereb o i suoi ufficiali avessero telefonato alla sala operativa di Roma per chiedere l’assistenza dei mezzi italiani più vicini, i sessanta bambini e i loro genitori sarebbero vivi. La nave italiana Libra è infatti in attesa di un ordine che non arriva ad appena dieci miglia. Perché allora Martin Xuereb chiede il via libera politico al capo del governo? Forse perché fino a quel momento gli era stato vietato di soccorrere profughi per non doverli portare poi a Malta?

Ce n’è abbastanza per convocare l’attuale direttore del Moas almeno sul banco dei testimoni nell’inchiesta penale in corso a Palermo. Ma, come si è visto, l’Europa dei confini non è uguale per tutti. E con il tempo anche quell’indagine, richiesta dai papà siriani che hanno perso in mare i loro bambini, rischia di finire archiviata.

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