Vincoli, codici, ricorsi. Abbiamo chiesto a Marco Cantamessa, responsabile dell'incubatore di imprese del Politecnico di Torino, quali sono i freni all'innovazione in università. Ecco i punti-chiave

TRIBUNALI
«Quando i vincoli normativi diventano stringenti, se non contraddittori, e su qualsiasi decisione incombe il terrore del ricorso al Tar e/o del “danno erariale” (per il quale chi ha deciso male deve mettere mano al portafoglio per rifondere lo Stato delle sue decisioni errate), è ovvio che una struttura tenderà a chiudersi a ogni ipotesi rischiosa e quindi a ogni atteggiamento “imprenditoriale”».

VINCOLI
«Oggi, tra misure per il contenimento della spesa pubblica (ad esempio un ateneo in crescita non può acquistare banchi e sedie per le proprie aule nuove, perché lo Stato ha posto dei limiti alle pubblica amministrazione sulla spesa per arredi!), normativa sulla trasparenza e la corruzione (che agita lo spettro del conflitto d’interesse dietro ogni angolo), e altre norme, la cosa migliore finisce essere: non fare nulla.

E, anche in un ateneo che voglia essere dinamico, in qualsiasi riunione si passerà la maggior parte del tempo a dibattere “cosa si può fare” anziché “cosa si vuole fare”».

ACQUISTI
Un professore indicava il paradosso dei fondi europei per l'alta ricerca (European Research Council), che vengono assegnati per realizzare prototipi di idee promettenti. Nel sistema universitario italiano questi finanziamenti sono trattati in tutto e per tutto come fondi del Ministero e per questo sottoposti a procedure, quali l'obbligo a comprare ciò che serve attraverso il Mercato unico della pubblica amministrazione, o a indire una gara se c'è bisogno di una prova di laboratorio, che rendono impossibile spenderli.

«A questi problemi si aggiungono quelli legati al reclutamento di persone che possano lavorare su progetti finanziati. Tra autorizzazioni e procedure di concorso, fosse anche per una collaborazione limitata, possono passare tempi incompatibili con quello che chiedono gli enti committenti».

CODICI
«L’università ha visto diverse forme di malcostume in materia di anti corruzione. Oggi però la normativa ha effetti perversi. Un esempio: se due ricercatori si sono conosciuti, innamorati e sposati mentre lavoravano in un medesimo dipartimento e uno di loro ha fatto carriera, ciò impedisce all’altro di avere una promozione, a meno che non cambi sede.

Purtroppo la norma è cieca: anziché gestire il conflitto di interessi (dichiarandolo, ad esempio, e poi isolandosi dalle deliberazioni) viene proprio impedita la decisione tout court. E, applicando i codici etici di molti atenei, lo stesso succede a un dipartimento che voglia coinvolgere una sua spin-off in un progetto di ricerca».

MISSIONE
«Come docenti, come potenziali membri nelle commissioni nazionali di abilitazione, e come candidati: quasi tutto verte intorno ai cosiddetti “indicatori bibliometrici”, cioè quanti articoli sono stati scritti e quante volte si è stati citati.

Essere valutati è sano, ma se la valutazione è così monodimensionale, ciò non può che portare a una visione parziale e distorta della missione accademica, che è fatta anche di insegnamento e trasferimento dei risultati della ricerca alla società. Questo porta a vedere attività come brevettazione e lancio di spin off come non “centrali” per il proprio percorso di carriera e la propria attività».
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AUTONOMIA
«Oggi gli atenei non hanno più alcuni autonomia nel definire i propri ordinamenti didattici. È vero che in molti non ne avevano fatto buon uso ma oggi si raggiunge il paradosso per cui un corso di laurea “obsoleto”, con molti docenti e un numero declinante di studenti viene visto come virtuoso, mentre studi “emergenti”, che hanno ovviamente ancora pochi insegnanti, sono visti come un’anomalia.

Anche se portano innovazione. In più, a seguire queste pratiche di controllo centrale minuzioso sia a livello di procedure che di parametri di riferimento, quanto tempo viene perso dai docenti per seguire queste procedure, e che potrebbe essere impiegato in maniera ben più proficua?»

CHIOCCIA
«Molti colleghi vedono lo spin-off come strumento per dare occupazione al proprio team di giovani ricercatori, i quali non hanno più concreti sbocchi di carriera presso l’accademia. È un punto di partenza apprezzabile, ma anche limitativo, perché suggerisce che la creazione d’impresa sia da intendersi come un ripiego. In realtà, dobbiamo iniziare ad accettare che il dottorato di ricerca non sia da intendersi come un’anticamera della carriera accademica ma, piuttosto, come un percorso di studi utile anche a chi vorrà fare altro nella vita, incluso l’imprenditore.

Mi permetto di aggiungere che la costituzione di spin-off può anche nascere da un obiettivo che potremmo definire “etico”. Se un ricercatore ha ottenuto un risultato che ritiene possa avere un impatto positivo sulla società, è in molti casi illusorio pensare che sia sufficiente scrivere un articolo di rivista, attendendosi che sia “qualcun altro” a doversi mettere a tradurre questo risultato in prodotti e servizi fruibili.

Sovente, toccherà proprio al ricercatore iniziare a “sporcarsi le mani” e compiere i primi passi in questa direzione, e la spin-off può diventare il veicolo più indicato per permettere a una parte del team di ricerca di interagire con i settori industriali e con il mercato, dedicandosi “a tempo pieno” a questa attività».

INSEGNAMENTO
«I docenti sono contemporaneamente dipendenti e gestori dell’istituzione stessa. In tempi passati vi era il rischio di avere atenei autoreferenziali e incapaci di avere un impatto significativo e positivo sulla società, e questo era sicuramente un male.

Oggi vedo il rischio opposto: quello di avere atenei chiusi in una “gabbia” molto stretta di indicatori di performance e regole, retti da una burocrazia che ne è interprete, e nei quali il personale docente e ricercatore finisce per essere considerato come un “operatore della ricerca” incaricato di produrre, come su una linea di montaggio, rendiconti finanziari, pubblicazioni, e ore di lezione. Ma questa non sarebbe una vera università, ma una sua caricatura».
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SOLDI
«L’università italiana ha subìto tagli superiori a quelli di altri comparti pubblici, e superiori a quelli sperimentati da altri sistemi universitari stranieri. Ciononostante, le statistiche OCSE fanno vedere che la produttività scientifica (espressa come numero di pubblicazioni per euro investito) rimane ad altissimi livelli, il che dimostra che i docenti italiani sono tutto sommato bravi.

Se fossimo capaci di migliorare il funzionamento del sistema, e se fosse progressivamente ristabilito un livello di finanziamento “da paese evoluto”, potremmo avere risultati straordinari, attraendo studiosi stranieri e facendo rientrare studiosi italiani che oggi lavorano all’estero.

A non permettere ciò non è solo l’assenza di finanziamenti e il basso livello salariale, ma anche la complessità delle regole e dei processi decisionali e amministrativi che caratterizzano il nostro sistema».

BREVETTI
«La maggior parte delle spinoff opera su brevetti che sono stati depositati dagli Atenei, e questo ovviamente richiede la cessione del brevetto o la concessione di una licenza. Se la spinoff è ancora in trattativa, o se il contratto non è chiaro, nessun attore economico (che si tratti di un finanziatore o di un cliente) inizierà mai a interagire con la spinoff.

Qui il problema è dovuto alle tempistiche, che sono sovente assai lunghe, ma anche alla chiarezza degli obiettivi strategici da parte degli Atenei. Senza un chiaro orientamento, l’Ateneo sarà sempre diviso tra il voler favorire la crescita di una propria spinoff e il timore di non “chiedere abbastanza” a un attore privato.

Personalmente sono dell’idea che sia opportuno orientarsi verso il primo obiettivo, perché è meglio avere una fetta piccola di una torta grande, che una porzione importante del nulla».

CARRIERA
«Sovente si considera la spin-off come un’attività che distrae il docente dai propri compiti. Sarebbe così se ci riferissimo al vecchio modello del docente che lavora da solo o quasi, della spin-off che assomiglia a uno studio professionale, e che magari si pone in una situazione di concorrenza sleale verso gli attori “di mercato”. Non è questo il modello da difendere e di cui vogliamo parlare.

Oggi parliamo di gruppi di ricerca importanti, che hanno la dimensione di medie imprese, e che possono con grande facilità generare spinoff che sviluppino i relativi risultati di ricerca. In queste spinoff, i docenti raramente lasceranno l’accademia per diventare imprenditori.

Molto più frequentemente, dopo un breve periodo di avvio, i docenti rimarranno semplici azionisti, magari presiederanno il “comitato scientifico” della spin-off. Le redini dell’iniziativa verranno invece lasciate ai propri collaboratori più imprenditoriali, oppure a manager che saranno reclutati grazie agli investitori che scommetteranno sull’iniziativa. Insomma, vogliamo che le spin-off diventino delle vere imprese!»