La capacità che i giganti hi-tech hanno di 'bannare' o sospendere contenuti è una questione fondamentale per chi si occupa di diritti dei cittadini-utenti. Anche nei Paesi in cui la libertà d’espressione è sancita dalla Costituzione
Denunciata anni fa da un paio di isolati intellettuali (come
Peter Ludlow o
Evgeny Morozov) la censura imposta dalle corporation digitali sta finalmente affiorando come questione fondamentale per i diritti dei cittadini-utenti, specie nelle democrazie dove la libertà d’espressione è sancita dalla Costituzione. Il caso più eclatante - e ormai insopportabile per molti - è quello di Facebook, che cancella contenuti arbitrariamente e il più delle volte senza nemeno capirli.
L’ultimo episodio (in Italia) riguarda un post ironico contro il razzismo del giornalista satirico
Ettore Ferrini, rimosso dopo essere stato condiviso da oltre 4.000 utenti, ma una sorte simile era capitata anche al vignettista
Mauro Biani (sempre sul sito di
Mark Zuckerberg) e al blogger
Daniele Sensi (su YouTube), oltre che a migliaia di utenti meno noti che si sono visti bannati o sospesi da queste aziende che si fanno al tempo stesso poliziotti, pm, tribunale e Cassazione di qualsiasi cosa che circoli on line, spesso eliminandola per sempre.
Alla base di questo super potere, il grande inganno politico e culturale che ha accompagnato la crescita dei mondi virtuali, secondo il quale questi possono fare tutto quello che vogliono «perché sono aziende private»: come se un’autostrada gestita da un privato potesse decidere quali auto passano e quali no, secondo i capricci del suo proprietario.
La libertà d’espressione, in democrazia, deve sempre prevalere sulle policy delle aziende: i cui “termini d’uso” quindi non dovrebbero mai essere più censori di quanto stabilito dalle leggi dei Paesi in cui operano (e in cui fanno robusti profitti).