
Non è eccessivo affermare che in Brasile è in corso una guerra civile che sta lasciando scie di sangue in ogni angolo del Paese. Tesi confermata dal Programma di Statistiche sui conflitti dell’Università svedese di Uppsala che, mettendo insieme le vittime di 46 guerre sparse nel mondo (dati 2013), ha riscontrato che il numero di decessi ammontava a 21.259, la metà del Brasile. Non c’è Stato della nazione verde-oro che si salvi. Da Nord a Sud passando per le grandi capitali San Paolo e Rio de Janeiro. Con un particolare incremento nel Nord-est, la zona più povera del Paese, soprattutto nello Stato di Alagoas dove si è arrivati a 55 morti ogni 100 mila abitanti. Di fronte a tali numeri viene spontaneo chiedersi che cosa si nasconda dietro tanto sangue e le cause che stanno portando a premere grilletti senza troppe remore.
Il commercio di droga, proveniente da Bolivia e Colombia, e le armi per controllare il territorio rimangono le cause principali di questa carneficina. Un comune denominatore che attraversa il Paese da nord a sud. In Brasile un chilo di cocaina boliviana viene acquistato a circa duemila euro, per poi essere rivenduto sul mercato locale, dopo appropriata lavorazione, a 7 volte tanto. Nella nazione verde-oro circolano 15,2 milioni di armi da fuoco, una ogni 13 persone. Di queste 8,5 milioni non sono regolarmente dichiarate e, per certo, 3,8 milioni sono nelle mani di criminali e bande organizzate. Nel 2005 un referendum sull’abolizione della vendita di proiettili e armi non è passato, con una netta vittoria dei contrari con il 63% dei voti.
Il commercio illegale di armi da fuoco rappresenta proprio la prima voce nel capitolo delle entrate delle principali organizzazioni criminali del Paese, consapevoli della necessità di avere sempre un arsenale a disposizione, per fronteggiare gli scontri a fuoco con le gang rivali e la polizia. Secondo Julio Jacobo Waiselfisz, autore de “La mappa della violenza” e coordinatore degli studi sul crimine alla Facoltà latino-americana di Scienze sociali, l’elevata impunità rappresenta una delle principali cause dell’alto tasso di omicidi nel Paese. «Solo il 3-4% dei criminali sono condannati a pene severe e definitive», spiega Waiselfisz a “l’Espresso”, «e questo spinge ad ammazzare anche per motivi futili e ad incrementare una cultura della violenza generalizzata». «Bisognerebbe anche accelerare riforme bloccate da tempo come quella del Codice di procedura penale o del sistema penitenziario».
Proprio negli ultimi giorni, la Camera dei deputati brasiliana, nonostante l’opposizione della sempre più isolata Dilma Rousseff, ha approvato una proposta di legge per ridurre a 16 anni l’età minima per l’imputabilità penale nei casi di omicidio e stupro. Adesso la proposta, per diventare effettiva, dovrà ottenere due volte il via libera anche del Senato. Un’iniziativa che sta facendo molto discutere e che secondo molti non risolverebbe il problema del crimine. «In Brasile mancano programmi sociali seri e corsi professionali per i giovani, soprattutto per quelli che vivono in zone disagiate e quindi più facili da coinvolgere», spiega Vera Araujo, giornalista d’inchiesta di “O Globo”, il principale quotidiano di Rio de Janeiro. «Senza contare», prosegue, «che chi sconta la pena nelle carceri brasiliane esce più criminale di prima, dato che non esistono programmi di reintroduzione nella società».
A guardare nel dettaglio la diffusione degli omicidi nel Paese, rispetto agli anni passati c’è stata una redistribuzione del crimine. Nelle grandi città, San Paolo e Rio de Janeiro in primis, tra il 2002 e il 2012 il tasso si è ridotto più o meno del 50%, mentre i piccoli centri, hanno sì usufruito del boom economico degli ultimi anni, ma di conseguenza hanno visto incrementare anche criminalità e violenza. Tuttavia le due grandi metropoli brasiliane rimangono il centro del potere delle bande organizzate che impartiscono ordini in tutto il Paese.
E proprio a Rio de Janeiro i primi otto mesi del 2015 hanno fatto nuovamente suonare diversi campanelli d’allarme. Numerosi gli attacchi con coltelli ad inermi cittadini per le strade della città. Un medico in bicicletta in una zona residenziale della capitale carioca è stato assaltato e ucciso. Dodici vittime a inizio gennaio e, nelle principali favelas della metropoli, scontri a fuoco ininterrotti tra comandos locali e polizia.
L’imponente programma di pubblica sicurezza introdotto nel 2008 nello Stato di Rio de Janeiro, che prevede il dispiegamento di oltre 9mila uomini in circa mille comunità ad alto rischio, non sembra essere più efficace. Secondo gli obiettivi iniziali le cosiddette “unità pacificatrici”, cioè poliziotti armati fino ai denti, avrebbero dovuto sì sradicare le organizzazioni criminali presenti all’interno delle favelas, ma anche ricostruire un tessuto sociale attraverso programmi educativi. Se in alcune roccaforti del crimine come il Complexo do Alemão (la più grande baraccopoli di Rio dove vivono circa 1 milione di persone), Marè, Rocinha la situazione non è mai cambiata, in altre comunità l’introduzione delle “unità pacificatrici” aveva portato dei risultati, che, però, stanno svanendo negli ultimi mesi.
«Inizialmente il programma statale ha portato risultati e speranze in alcune aree», spiega Josè Claudio Alves, professore di Sociologia all’Università federale di Rio de Janeiro e massimo esperto di criminalità nella città carioca, «ma la crisi economica, le promesse non mantenute e la mancanza di concreti programmi di sviluppo sociale hanno spinto la gente a riavvicinarsi al sempre florido narcotraffico». Tutto ciò ha provocato un inasprimento nelle relazioni polizia-comunità e un aumento delle operazioni nei vicoli delle favelas con frequenti scontri a fuoco.
Secondo un rapporto di Amnesty International, criticato dal ministro dell’Interno brasiliano, tra il 2005 e il 2014 oltre 5.000 persone sono state uccise dalla polizia militare a Rio de Janeiro. E nelle ultime settimane sono stati coinvolti anche numerosi civili innocenti. Ad aprile, proprio nel Complexo do Alemão, dove si registra la situazione più tesa, Eduardo, un bambino di 10 anni, è stato ucciso da una pallottola vagante esplosa da un poliziotto delle “unità pacificatrici” durante un’operazione contro alcuni membri del Comando Vermelho, la principale organizzazione criminale di Rio de Janeiro e del Brasile intero che si stima abbia un patrimonio di miliardi di euro. Un episodio che ha fatto esplodere la rabbia dei favelados, come sono chiamati gli abitanti delle favelas.
«La situazione è molto tesa», racconta a “l’Espresso” Viviane Ribeiro, una giornalista che vive e lavora nel Complexo do Alemão. «Le incursioni della polizia avvengono quotidianamente quando i bambini entrano o escono dalle scuole perché sanno che i gruppi criminali non vogliono imbattersi in sparatorie che possano coinvolgere la comunità locale per non inimicarsela», spiega la giornalista. Una serie di eventi che hanno trasformato anche le cosiddette comunità pacificate in zone off limits, dove l’unica soluzione sembra essere l’uso delle armi.
A questo si aggiunge quello che, secondo gli esperti di criminalità organizzata, è il vero cancro da estirpare in Brasile: la collusione tra narcotraffico e alcuni membri dell’esercito o della polizia militare. «Oltre ad una percentuale sui proventi del traffico di droga e armi, alcuni militari gestiscono direttamente diversi business all’interno delle comunità», spiega Alves. Ad esempio? «Sicurezza personalizzata in cambio di soldi, provvigione di luce, gas e Internet dove non arriva, fino a lotti di terra per permettere la costruzione di baracche agli abitanti delle favelas». Fonti interne alla polizia hanno rivelato a “l’Espresso” che il ministero dell’Interno sta cercando di aumentare il dispiegamento di militari provenienti da varie parti del Brasile, meno inclini a trattare con i criminali rispetto ai colleghi di Rio de Janeiro.
Mentre tutto scorre, la guerra tra bande nella capitale carioca e in tutto il Brasile è più accesa che mai. Lo storico Comando Vermelho da una parte e gli Amigos dos Amigos dall’altra. Quest’ultimo “comando”, il più recente ma anche il più assetato di sangue e soldi, è in subbuglio dopo che la polizia due settimane fa ha ucciso il suo leader, Celso Pinheiro Pimenta, detto Playboy, uno dei narcotrafficanti più ricercati di Rio. In palio c’è il controllo di tutto quello che ruoterà attorno alle Olimpiadi del prossimo anno. Dalla prostituzione alla droga, passando per gli appalti miliardari alle imprese turistiche. Perché all’ombra del Cristo redentore, anche le gang una volta famose solo per spari, droga e samba oggi si sono inserite, a tutti i livelli, nei meandri della società brasiliana.