In Danimarca ai foreign fighters che vogliono tornare a casa, al posto del carcere, viene offerto un lavoro e cure psicologiche. In Francia le famiglie che temono che i loro figli siano caduti nella rete dell'Islam radicale possono rivolgersi a un numero verde. In Inghilterra sono i più rispettati imam musulmani a smontare in rete le bugie della propaganda del Califfato. In Italia le misure che dovrebbero servire a sventare la minaccia terroristica sono affidate unicamente al codice penale. Sul fronte della prevenzione nel senso più ampio del termine non c'è praticamente nulla. Al massimo ci si può imbattere nell'idea di “mandare tutti all'Asinara”, come ha proposto la Lega.
«E invece è l'unica soluzione possibile nel medio e lungo periodo: non è buonismo, non possiamo pensare che affidarsi unicamente all'aspetto repressivo possa bastare» afferma il deputato-questore della Camera Stefano Dambruoso (Scelta civica), che col democratico Stefano Manciulli ha appena depositato una proposta di legge per contrastare la radicalizzazione jihadista, soprattutto fra i più giovani.
Da magistrato, quando era alla Procura di Milano, Dambruoso è stato uno dei primi a occuparsi di terrorismo islamico, prima ancora dell'11 settembre 2001. Un'esperienza poi arricchita dalla collaborazione internazionale in Eurojust e - in ambito Onu - con l'Unicri, l'organismo che si occupa di condividere le informazioni sulla prevenzione del crimine. Ed è proprio sulla scorta dell'esperienza maturata e di quanto avviene all'estero che il parlamentare mette in guardia sull'arretratezza italiana: «Il decreto Antiterrorismo ha raggiunto il massimo che si possa fare sul fronte penale senza abbandonare lo stato di diritto. Adesso però occorre lavorare sul recupero e la riabilitazione, per limitare il senso di esclusione di individui e gruppi già marginalizzati. È un investimento necessario».
Anche il Consiglio di sicurezza dell'Onu, in una risoluzione approvata all'unanimità nel settembre 2014, ha battuto sulla necessità di puntare sulla prevenzione tramite la società civile e le comunità straniere di riferimento. In Italia, tuttavia, ancora nulla sembra muoversi in questa direzione.
NON SOLO CARCERE
Il progetto di legge prevede un ampio spettro di interventi, finanziabili attraverso i 26 milioni che la Ue mette a disposizione tramite il progetto Ran (Radicalisation awareness network). A cominciare dal carcere, con un grande Piano nazionale per rieducare chi è già stato condannato ma anche chi, da dietro le sbarre per altre ragioni, potrebbe essere attratto dalle sirene del terrore. Senza dimenticare il ruolo fondamentale delle forze di polizia, per le quali prevedere appositi corsi di formazione che permettano di riconoscere i primi segnali di radicalizzazione e intervenire di conseguenza.
Altro obiettivo: realizzare un Sistema informativo in cui far confluire tutte le informazioni sulle situazioni da tenere sotto controllo e soggetti a rischio, promuovendo per i potenziali terroristi percorsi mirati di inserimento lavorativo che possano sottrarli al richiamo jihadista. Quanto all'educazione fra i banchi, l'idea è di spingere le scuole a fare altrettanto con l'aiuto di esperti e psicologi, monitorando le iniziative intraprese per mettere a fattor comune le più riuscite.
Ma è soprattuto sul web che va combattuta la battaglia. Adoperando le stesse armi dei reclutatori:
diffondendo una narrazione alternativa alla fascinosa mistica romantica che l'Isis mostra di sapere maneggiare con grande capacità nei suoi video. E mostrando i combattenti del Califfato per quello che sono: spietati assassini. Proprio come già avviene all'estero.
LA CONTRO-INFORMAZIONE CORRE SUL WEB
È il caso della Francia, dove un anno fa (subito dopo la strage alla redazione di Charlie Hebdo) il governo ha lanciato il sito Stop Djihadisme e istituito un numero verde per raccogliere segnalazioni e richieste di aiuto. Usato anche per smontare coi video caricati in rete gli argomenti classici della propaganda islamista e smascherare le tecniche di manipolazione, il portale pubblica anche un vademecum per riconoscere i primi segnali della radicalizzazione dei ragazzi, dalla modifica delle abitudini e dello stile di vita (abbigliamento, sport, abbandono scolastico) alla rottura dei legami familiari.
Nel Regno Unito, invece, è stata la comunità islamica a lanciare la campagna Fightback start here, ovvero “La risposta (ma anche il contrattacco, ndr) parte da qui”, che coinvolge un centinaio di soggetti fra associazioni caritatevoli, gruppi di attivisti e anche rappresentanti di altre fedi religiose (ebrei, cristiani, hindu e sikh). Anche in questo caso, un'azione che si sviluppa soprattutto su internet, dove la Federazione delle organizzazioni mussulmane ha aperto un canale youtube per veicolare i suoi messaggi di tolleranza, rispetto e condanna degli attentati. E per demistificare la retorica jihadista.
Altro network, sempre nel Regno Unito, è la Radical middle way, attivo da anni e in cui sono gli studiosi dell'Islam moderato, riconosciuti all'interno della comunità, a mettere in discussione l'interpretazione radicale del Corano.
RICETTA DANESE
Sul fronte del recupero, tuttavia, la strategia più coraggiosa è quella che viene dalla Danimarca, la nazione col più alto tasso di foreign fighter pro capite dopo la fucina belga. Già dal 2014 il Paese scandinavo ha elaborato il cosiddetto “modello Aarhus”, dal nome della città da cui sono partiti gran parte del centinaio di combattenti che si sono arruolati con l'Isis, tutti under 30. Idea di fondo: i “returnees” non vanno trattati come criminali o potenziali terroristi, ma come ribelli che hanno abbandonato il Califfato e meritano una seconda opportunità.
Un programma nato nel 2007 per gli hooligan neonazisti della squadra di calcio cittadina e basato su reinserimento scolastico, affiancamento con operatori specializzati, avviamento al lavoro e perfino sostegno psicologico. Perché per molti, al di là della retorica, la disillusione è cocente. Ed è un'opportunità da non lasciar cadere: se certo non può bastare la buon volontà, è un fatto che solo una minima parte ad Aarhus ha finora rifiutato una qualche forma di aiuto. E una volta che si è spezzato il legame con la galassia jihadista, sono proprio i ragazzi fuggiti dalla guerra a diventare i migliori testimonial degli orrori del Califfato: un messaggio che gli altri ragazzi a rischio non vedono calare dall'alto, ma trasmettere da pari e pari, da «uno di noi».
Del resto una soluzione univoca non c'è. Né si può pensare che lavorare sulla prevenzione basti di per sé a mettere al riparo da attacchi, come mostrano proprio i casi francese e danese. Ma si tratta di progetti ai quali va comunque riconosciuto il pregio di battersi a monte per contrastare il radicalismo, con un'operazione che è sociale e culturale al tempo stesso. Provando a prosciugare l'acqua in cui nuota il terrorismo prima che sia troppo tardi.