Il meccanismo dei grandi elettori era già costato la vittoria ad Al Gore e, prima di lui, ad altri tre candidati. Oggi il maggioritario americano ha permesso a Trump di andare alla Casa Bianca. «Ma in America», assicura l’esperto, «non è uno scandalo»
59.798.978 voti per Hillary Clinton. 59.594.262 per Donald Trump. Se guardiamo agli Stati Uniti come federazione, sono circa duecentomila i voti in più arrivati alla candidata democratica. Che però è stata sconfitta: il presidente eletto, come da profilo twitter orgogliosamente aggiornato, è infatti Trump. Ma in America, Paese della governabilità, può capitare e non è uno scandalo. È l’effetto della legge elettorale con cui gli Stati Uniti eleggono il loro presidente. O meglio eleggono, in realtà, 538 grandi elettori che, con un’elezione di secondo livello, sceglieranno poi l’inquilino della Casa Bianca. E lo sceglieranno, peraltro, senza avere - almeno per quelli eletti in 26 dei 50 Stati federali - vincolo di mandato: una libertà teorica che non ha mai falsato il risultato ma che ha un precedente abbastanza recente, quando nel 1960 in quindici, a differenza di quanto avrebbero dovuto fare, votarono per Harry F. Byrd, che non era neanche tra i candidati.
La vittoria di Trump è l’effetto del maggioritario, ovviamente, e se a noi - che pure siamo ormai pienamente inseriti nel solco - può far storcere il naso, in America è, come detto, normalissimo. Funziona così da sempre. Tant’è che, con questa elezione, «è successo cinque volte» ci spiega
Mauro della Porta Raffo, saggista esperto di Usa, che alle elezioni americane ha dedicato decine di libri e saggi, tra cui Obiettivo Casa Bianca, come si elegge un presidente e - più recente - Usa 1776/2016. Dalla Dichiarazione di Indipendenza alla campagna elettorale del 2016, opera in quattro volumi.
Quello che è accaduto con Donald Trump, dunque, «è successo nel
1824, nel 1876 e nel 1888» ci ricorda Della Porta Raffo. E poi è successo anche nel
2000: «È il caso più noto di
Al Gore che perse contro George W. Bush nonostante avesse raccolto mezzo milione di voti in più». 50 milioni e 456mila voti prese Bush jr., pari al 47,9 per cento; quasi 51 milioni ne prese Al Gore, il 48,4. Il meccanismo dei grandi elettori gli fu però fatale, con il caso limite della Florida, dove Bush si assicurò il premio con uno scarto di soli 537 voti e uno strascico infinito di polemiche e riconteggi. Bush jr. finì la corsa con 271 delegati (uno sopra la maggioranza). Al Gore si fermò a 266.
«In America nessuno si stupisce», ci spiega però Della Porta Raffo, «perché l’errore è nostro che contiamo i voti a livello federale». Un errore concettuale. In America contano i singoli Stati, non l’Unione, non la federazione. Gli Stati hanno tutti pari dignità, come dimostra il fatto che tutti mentre hanno un numero di grandi elettori proporzionato alla popolazione, a prescindere dagli abitanti, eleggono due senatori e che, sempre a prescindere dalla popolazione, ogni Stato, nel rarissimo caso in cui dalle elezioni non dovesse uscire un presidente, concorre con un solo voto all’elezione di riserva. Il meccanismo - rarissimo e «ignorato, spesso, dagli stessi americani» - ce lo spiega ancora Della Porta Raffo: «Se nessuno ha il voto dei 270 grandi elettori necessari, sono la Camera dei Rappresentanti e il Senato, separatamente, a eleggere il Presidente, la Camera, e il vicepresidente, il Senato». Con un sistema di voto che è sintesi perfetta della centralità dei singoli Stati. I deputati, infatti, si riuniscono per Stato d’elezione e, votato al loro interno, esprimono poi, in aula, un solo voto per Stato: «La California, che elegge in realtà 55 grandi elettori, si ritrova così a pesare come l’Alaska, che di grandi elettori ne ha tre».
I due Stati, California e Alaska, non sono però solo utili per spiegare
il principio su cui si basa la legge elettorale americana: per rappresentare come a contare siano gli Stati, ognuno con i propri elettori. Raccontano anche bene il paradosso che c’è dietro la vittoria di Trump, di George W. Bush e dei loro maggioritari predecessori. In 48 Stati americani, infatti, il sistema è quello del winner-takes-all: basta un voto in più per aggiudicarsi tutti i delegati dello Stato. Siccome però la quantità di delegati è stabilita sulla popolazione residente, può capitare che il candidato vincente in California, poniamo per cento voti, perda per duecento o mille voti in Alaska: «In totale, sommando i due Stati, avrebbe quindi meno voti dell’altro candidato, ma conterebbe alla fine 55 grandi elettori, i californiani, contro i tre dell’avversario».
Tutto muove, quindi, dal ruolo degli Stati. Il sistema presidenziale, poi, con il Congresso che non deve dare la fiducia e il presidente che può respingere leggi non gradite, fa il resto.
Ma l’America è maggioritaria da sempre. È una tradizione, insieme ad altre. A cominciare dal giuramento sulla Bibbia, che è stata onorata da tutti i presidenti ma non è obbligatoria («nessuno ha però scelto di dare solo la sua parola»). E proseguendo poi per il calendario, che per noi - che ogni volta abbiamo settimane di polemiche sulla scelta della data - è sicuramente curioso.
I 538 delegati - ci spiega ancora l’esperto - vengono infatti eletti sempre lo stesso giorno: «Però non è solamente il primo martedì di novembre», è la precisazione, «ma “il primo martedì dopo il primo lunedì del mese di novembre dell’anno coincidente con il bisestile”». Tanta precisione si deve al fatto che la prima vera elezione Usa è stata
nel 1792, anno appunto bisestile. Fino al 1844, però, si votava per un intero mese, novembre, il mese perfetto per consentire a un popolo di agricoltori e proprietari di bestiame di lasciare il lavoro e mettersi in viaggio per raggiungere, spesso a cavallo, i pochi seggi. «Anche nel 1848, quando si decise di passare a un giorno solo», continua Della Porta Raffo, «si tenne conto della difficoltà di movimento». E se la domenica è il giorno del Signore e il lunedì serve dunque per il viaggio, bisogna poi evitare di cadere sulla festa di Ogni Santi: ecco che si arriva al “primo martedì dopo il primo lunedì”.