La moglie di Luigi Brunori, malato di Sla morto l'8 gennaio del 2016, racconta l'esperienza sua e del marito. E la loro lunga lotta per un diritto: il diritto ad andarsene. Il suo ricordo in occasione del decennale dalla morte di Piergiorgio Welby, che l'associazione Luca Coscioni porta alla Camera

Quando è arrivato il momento ha cucito per lui una maglia. La scritta sul petto diceva: “finalmente libero”. «Gliel'ho fatta indossare per il funerale». Finalmente libero. Come Welby. Come tutti coloro che conoscono ogni giorno la condanna più ossimorica a cui uno Stato può costringere i suoi cittadini: la condanna a non morire. Gina racconta di quel giorno e degli anni, dei mesi, alla fine i minuti, che lo avevano preceduto. Racconta - e si commuove - la sua vita di fianco a un uomo che la vita amava ma non per quello che era diventata. «Io non vorrei morire, ma prendo atto che non posso vivere», ripeteva agli amici Luigi Brunori, malato di Sla che l'8 gennaio del 2016 è morto per “desistenza terapeutica” in una clinica di Roma. E che per tre anni, insieme alla moglie Gina e all'associazione Luca Coscioni, si è battuto per i diritti delle persone come lui. Che fanno i conti con la condanna ad ammalarsi e a non iniziare a temere, come tutti, la morte. Quanto l'impossibilità di morire.
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«Scoprire la malattia è stato violento. Era il settembre del 2012», racconta oggi a “l'Espresso” la moglie, Gina: «Sentiva una debolezza ai muscoli. Mio marito andava in montagna, era molto attivo, conosceva il suo corpo. Capì che non era solo stress come diceva il medico di base. Poco dopo era ricoverato al centro Sla del Gemelli di Roma. Il medico gli disse: “vuoi sapere tutta la verità? Speranze non ne hai”. È stato come sentire una pistola alla tempia». Luigi e la moglie reagirono, insieme, subito. «Mi ripeteva: “Speriamo che la malattia mi dia il tempo di abituarmi”. Teneva un diario: “Oggi mi ha lasciato il dito”». In poche settimane era già in carrozzina. A gennaio del 2013 portava una mascherina per respirare. «A marzo ci chiamò e ci riunì tutti: me, i suoi figli, i parenti, gli amici più stretti, anche il vicino di casa, e un notaio. E ci disse: “Quando non potrò più comunicare, voglio essere staccato”. Davanti a tutti. Voleva che conoscessimo la sua volontà».

La malattia non aspettò. E lui non la rifiutò, mai. Arrivò anche ad accettare la tracheotomia, «per vedere la seconda nipotina, che stava per nascere», ricorda Gina Brunori: «Sapeva cosa significava però. Si sentiva un condannato. A vivere, attaccato alla macchina. Era disperato. Quel male dall'animo, il dolore di non poter morire, non se ne andò più da lui». Sapeva infatti che da quel momento l'unico modo per andarsene sarebbe stato “staccare la macchina”. E in Italia sarebbe significato eutanasia, rifiutare le cure: ovvero una scelta ancora sul filo di sentenze e ricorsi, un diritto non ancora garantito dalla legge. «Ci informammo e scoprimmo le cure palliative e la desistenza terapeutica, la possibilità cioè di andarsene sedati dalla morfina, estesa da una legge del 2010 a tutti i malati terminali. Oggi sono convinta andrebbe estesa anche a chi rifiuta la tracheotomia e va altrimenti incontro a una morte orrenda, per crisi di respirazione».
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Oggi, dice Gina. Perché anche per lei il percorso è stato lungo. «Io non ho mai dovuto decidere. Lui era stato chiaro, sulla sua volontà, e per fortuna anche i medici avevano comunicato con lui. Ma quando a luglio del 2015 anche i suoi occhi, con cui ci parlava, attraverso il comunicatore, con cui scriveva, organizzava marce e manifestazioni, si sono chiusi, la responsabilità è passata a me. Aveva anticipato: “se io non potrò dire quando, il momento lo deciderà mia moglie”. Ma a luglio io e i miei figli non eravamo ancora pronti». Cerca di non commuoversi, ancora, mentre racconta, e continua: «Decisi di portarlo a Lourdes. In aereo non ci volevano, in treno neppure. Dovetti noleggiare una clinica mobile». Tornarono dalla Francia. Lei era ancora incerta. «Traccheggiavo, non riuscivo a decidermi».

Poi un giorno si accorsero al mattino che le borse con  l'acqua calda usate per lavarlo gli avevano in parte ustionato un braccio: «Non aveva potuto urlare, non aveva potuto dire niente, di quella sofferenza. Mi resi conto che era arrivato il momento di lasciarlo andare. Basta. Era solo giusto». Entrarono così dopo Natale in un Hospice. «I volontari, i medici, tutti, per fortuna sapevano. E vedendomi ancora in dubbio una sera mi dissero: “Tu te la senti di farlo tornare in una situazione in cui lui non vuole stare?”. Cinque giorni dopo, ancora attaccato al respiratore, era morto. Il suo cuore si era fermato».
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Luigi Brunori aveva continuamente lottato. Insieme ad altri tre iscritti all’associazione Luca Coscioni (Ida Rescenzo, malata di distrofia muscolare, Walter Piludu e Max Fanelli, malati di SLA), nel maggio del 2015 aveva rivolto un appello a Camera e Senato per chiedere di calendarizzare la proposta di legge popolare sul testamento biologico e l'eutanasia. L'appello, il primo firmato da dei malati, era stato ripreso anche delle Tv. Ma in aula, non è bastato. La sua battaglia era vicina, quotidiana. «Avevamo trasformato la casa in una clinica aperta. A tutti dicevo: “Venite”. Invitammo anche preti, cattolici. Molti, dopo due ore, se ne andavano dicendo: “Chi sono io per costringere un mio simile a questo?”. Lui voleva che la sua sofferenza fosse un esempio. Diceva agli amici: “Provate voi a stare fermi, immobili, per solo mezz'ora. E pensate che poi potete tornare alla vostra vita. Io no”». Chiedeva il diritto ad andare via.

E ora Gina, la moglie che non l'ha mai lasciato, che «per fortuna ero in pensione» e quindi lo portava a Villa Borghese, in giro in macchina per Roma, alla maratona, «a vedere i giocatori della Lazio all'allenamento ma anche Totti perché lo stimava», si chiede se «i pro-vita vogliono continuare nella loro posizione, che almeno diventino missionari a tempo pieno, che vengano a capire cosa significa stare di fianco a un malato in quelle condizioni, cosa significa dover chiedere prestiti agli amici per pagare 100 euro ogni 10 giorni di integratori per le piaghe che l'Asl non ti passa, o i colliri, o tutti gli altri medicinali, e il tempo, le ore necessarie. E sapere che lui vorrebbe solo una cosa. Andare via. Con il nostro amore di fianco».