Economia. Giustizia. Banche. Nomine. Resa dei conti nei partiti. Tutto bloccato per mesi. Nel governo, in Parlamento, nei palazzi. Ora si riparte. Forse
Heri dicebamus, ricominciò a scrivere Luigi Einaudi sul Corriere della Sera nell’agosto 1943 dopo la lunga parentesi fascista, come disse Benedetto Croce e poi Enzo Tortora quando tornando in tv dopo l’assoluzione giudiziaria commosse l’Italia. Dunque, riprendiamo il discorso: di cosa stavamo parlando ieri? E di cosa torneremo a parlare domani? Si fa fatica a ricordare le priorità della politica italiana e del Paese accantonate, messe in un cassetto, rimandate in attesa del voto referendario: «
Decideremo dopo il 4 dicembre», è stato il tormentone degli ultimi mesi. Sugli schermi blu a circuito chiuso nel Transatlantico di Montecitorio scorre la scritta: «La Camera è convocata per martedì 6 dicembre 2016». E i punti all’ordine del giorno della prossima seduta: «Discussione mozioni concernenti iniziative per promuovere una corretta alimentazione. Ratifica ed esecuzione dell’accordo tra il governo italiano ed il governo dell’Azerbaijan sulla cooperazione nel settore della difesa. Ratifica ed esecuzione della convenzione tra l’Italia e la Romania per evitare le doppie imposizioni in materia di imposte sul reddito e per prevenire le evasioni fiscali...».
Ma nessuno può prevedere in quale situazione politica saranno discussi questi provvedimenti: il 6 dicembre, “dopo”, è un cambio d’epoca.
Per mesi la politica italiana è finita in apnea: per quasi un anno, da quando il 29 dicembre 2015 Matteo Renzi annunciò che in caso di sconfitta sulla riforma della Costituzione si sarebbe dimesso da Palazzo Chigi e avrebbe lasciato la politica. È seguita la lunga campagna referendaria, con il premier e i suoi avversari impegnati su ogni fronte, come se si votasse per le elezioni politiche. Con la differenza che quando c’è la campagna elettorale classica è previsto un congelamento dell’attività istituzionale: Camere sciolte, governo in ordinaria amministrazione. Mentre in questo caso l’interruzione della politica è l’effetto dell’atmosfera da D-day attorno al referendum. Istituzioni, partiti, sindacati, associazioni di imprenditori, banche, cancellerie internazionali: tutti rimasti con il fiato sospeso in attesa del Dies Irae renziano, di sciogliere il Grande Enigma.
Ora è arrivato il momento di tornare a respirare. Forse.Il primo capitolo è l’economia reale, come si dice per distinguerla da quella finanziaria (o da quella virtuale delle polemiche nei talk televisivi). Che sarà decisiva per determinare il corso del dopo-referendum. La legge di bilancio 2017 è stata votata dalla Camera prima che cominciasse il rodeo nelle urne, ma in pochi immaginano che il testo attuale sarà confermato dal Senato dopo il 4 dicembre, nonostante l’ottimismo di Renzi e del ministro dell’Economia Pier Carlo Padoan. I sostenitori della continuità di governo, i più vicini a Sergio Mattarella, quelli che escludono strappi perché passata la festa referendaria bisognerà fare i conti con la realtà, consigliano di riprendere in mano gli avvertimenti espressi in modo ufficiale dall’Ufficio parlamentare di bilancio che valuta il rispetto delle regole nazionali e europee. In quelle pagine si legge che«l’effetto sull’equilibrio dei conti non è privo di rischi», poiché «l’assunzione di impegni permanenti dal lato delle spese correnti (in particolare per le pensioni e il pubblico impiego) sono compensati solo in parte da entrate permanenti e certe» e «si rende difficile identificare gli obiettivi della programmazione di bilancio di medio termine». Pesano i fondamentali fragili dell’economia italiana, la ripresa debole, il fardello del debito pubblico, l’aumento dell’Iva sempre rinviato che si abbatterebbe sui consumi. E il giudizio di Bruxelles: la Commissione Ue aveva deciso di rinviare tutto al dopo-4/12.
Sugli istituti di credito, alla vigilia del voto, il “Financial Times” ha previsto il fallimento di otto banche italiane in caso di vittoria del No. In particolare una: il Monte dei Paschi di Siena. «C’è una sostanziale indisponibilità manifestata dagli investitori istituzionali ad assumere importanti decisioni di investimento relative a società italiane prima di conoscere l’esito del referendum costituzionale», si leggeva nella relazione illustrativa approvata dal consiglio di amministrazione in vista dell’assemblea dei soci del 24 novembre. Concetto confermato in più occasioni da Davide Serra, numero uno del fondo Algebris e sostenitore di Renzi. Sullo sfondo, l’eventualità del piano B, l’intervento diretto dello Stato, l’acquisto da parte del Tesoro di nuove azioni di Mps, la nazionalizzazione di Babbo Monte, come i senesi chiamano il loro storico istituto, che aprirebbe l’aspettativa di altri salvataggi.
Il dossier banche è il più delicato tra quelli rimasti ibernati per mesi, fino al consumarsi dello scontro nelle urne il 4 dicembre, e coinvolge decine di migliaia di risparmiatori. Ma nei corridoi parlamentari si sono smarrite altre riforme previste nel cronoprogramma del governo Renzi all’inizio della sua attività nel 2014, a dispetto dell’esigenza di urgenza e velocità dell’iter legislativo che è oggetto della campagna referendaria. La più importante è la riforma del processo penale che contiene nuove norme sulla prescrizione e sull’uso delle intercettazioni. «Sarebbe un errore non approvare il ddl prima del 4 dicembre», si è sfogato più volte il ministro della Giustizia Andrea Orlando con i colleghi e nelle aule parlamentari.
Per accelerare l’approvazione della riforma il governo aveva messo in campo l’arma del voto di fiducia al Senato all’inizio dell’autunno, ma niente da fare, la legge è rimasta bloccata prima di arrivare in votazione nell’aula di Palazzo Madama: rimandata e infine fissata in calendario per il 7 dicembre, dopo il referendum, in un’altra epoca. Troppo rischioso aprire una crepa nella maggioranza governativa con i centristi di Angelino Alfano e con gli uomini di Denis Verdini contrari all’allungamento dei tempi della prescrizione, punto centrale del pacchetto Orlando. E necessario per il buon andamento del referendum assicurarsi la neutralità delle toghe. Renzi ha stipulato prima del voto una tregua con l’Associazione magistrati italiani di Piercamillo Davigo: nessuna polemica del premier con il partito dei giudici e nessun impegno diretto dell’Anm sulla battaglia referendaria, nonostante lo schierarsi di tanti magistrati da singoli cittadini. La pax referendaria ha tenuto, per la prima volta da molti anni la giustizia è stata tenuta fuori dalle polemiche elettorali. Ora si ricomincia: in prescrizione potrebbe finire un pezzo della riforma Orlando.
Consumato l’Armageddon referendario,
riprende il toto-nomine ai vertici delle aziende partecipate, una delle partitissime della primavera 2017 che fa da sfondo alle grandi manovre attorno all’inquilino di Palazzo Chigi. In gioco la conferma o meno dei vertici di Eni, Enel, Finmeccanica, Poste, Terna, cui potrebbe aggiungersi il posto più alto di viale Mazzini, con l’attuale direttore generale della Rai Antonio Campo Dall’Orto sempre più sotto tiro da parte degli uomini di governo come il sottosegretario alle Comunicazioni Antonello Giacomelli, vicino al numero due di Renzi Luca Lotti. Per mesi i manager interessati, Claudio Descalzi (Eni), Francesco Starace (Enel), Mauro Moretti (Finmeccanica), Francesco Caio (Poste), Matteo Del Fante (Terna), hanno compulsato sondaggi riservati sul voto referendario come se fossero report finanziari, per capire cosa li aspetta nei prossimi mesi. Alcuni sono riusciti a evitare che l’azienda di loro responsabilità finisse coinvolta nella bagarre pre-voto, una resistenza e un’indisponibilità a schierarsi senza riserve sul fronte governativo che ora sarà messa alla prova: premiata o punita.
Escono dall’apnea anche i partiti, vecchi e nuovi. Il Movimento 5 Stelle ha messo per due mesi in stand by le guerre interne, ma la tregua è finita. Sul Campidoglio e sugli incarichi affidati dalla sindaca Virginia Raggi all’uomo-ombra Raffaele Marra Beppe Grillo aveva sedato la rivolta dei parlamentari romani di M5S con un argomento tranchant: «Non facciamo regali a Renzi. Affronteremo la questione dopo il 4 dicembre». Anche nel centro-destra è in arrivo la resa dei conti. Nella Lega Umberto Bossi si è scagliato contro Matteo Salvini, duramente criticato sottotraccia anche dal partito degli amministratori leghisti, come Roberto Maroni e Luca Zaia. In Forza Italia si posizionano le truppe per l’incarico di coordinatore nazionale del partito, dopo la scomparsa dai radar di Arcore di Stefano Parisi: un duello tutto al femminile tra le due ex ministre Maristella Gelmini e Mara Carfagna. Ma lo spettacolo più cruento andrà in scena nel Partito democratico, dove tutto è in gioco: i posti di governo, il vertice del partito, il lanciafiamme che Renzi ha minacciato di usare contro i notabili e la minoranza dilaniata come sempre tra la scissione e la guerriglia interna. A decidere sarà la legge elettorale con cui si tornerà a votare alle prossime elezioni politiche.
L’Italicum confermato o una legge elettorale proporzionale? Se così dovesse finire, la guerra del Sì e del No di questi mesi non passerà alla storia solo come la più violenta degli ultimi decenni, ma anche come l’ultima all’insegna del bipolarismo. Per il dopo-referendum si prepara per l’Italia un ritorno al futuro: governi di coalizione da formare in Parlamento, come decenni fa. Con il Renzi fine-del-mondo di questi mesi pronto a trasformarsi in un giocatore di poker di Palazzo, con i bluff e le carte coperte, come accadeva un tempo. Heri dicebamus.