Chiamatela rimozione, un processo freudiano che spinge in soffitta le verità più indigeste. Accade per i passaggi inconfessabili della storia nazionale, molti ancora coperti dal segreto di Stato. La rimozione – o l’alterazione della verità dei fatti – si è riproposta in questi giorni a proposito del caso Cirillo ovvero per quel drammatico episodio in cui le istituzioni dello Stato riconobbero nella camorra un interlocutore di pari grado, chiedendo l'aiuto di Raffaele Cutolo, il più sanguinario capo camorra dell’epoca.
Avvenne nel 1981, per il rapimento di Ciro Cirillo, assessore Dc ai lavori pubblici della Campania e presidente della commissione che doveva gestite tutti gli appalti del post terremoto del 1980. Una vicenda seppellita nel capitolo delle storie più imbarazzanti. Al punto che anche oggi è difficile accendere i riflettori. Cirillo fu sequestrato il 21 aprile da un commando delle Br guidato da Giovanni Senzani, durante un assalto in cui vennero uccisi l'autista e un agente di scorta. I brigatisti lo liberarono il 24 luglio di quell'anno dietro il pagamento di un riscatto da 1,5 miliardi di lire. E si parlò di altri 1,5 miliardi finiti alla camorra. Nel mezzo, si avverò il copione in cui lo Stato e l’antistato si siedono allo stesso tavolo per negoziare.
Eppure all'inizio di febbraio di quest’anno il 95enne Ciro Cirillo sente il bisogno di riemergere dall'oblio a cui si era autoconsegnato per 35 anni. Ma lo fa per negare ogni trattativa finalizzata al suo rilascio, con la mediazione del boss. "Lo escludo, assolutamente", ha dichiarato in un'intervista alla tv svizzera italiana. E riattizzando il fuoco di antiche accuse, aggiunge: "Ci fu un'istruttoria, da parte del giudice Carlo Alemi, che aveva un solo obiettivo, incastrare Antonio Gava, allora ministro dell’Interno". Di nuovo salta fuori il nome dello scomparso leader del grande centro. E, come in un gioco di specchi, queste parole fanno rompere il riserbo a chi condusse l'inchiesta, il magistrato Alemi per anni perseguitato per la sua coerenza e per la fedeltà al principio di legalità.
Il segretario democristiano De Mita lo bollò in pieno Parlamento come “giudice al di fuori dal circuito costituzionale". Il quotidiano della Dc definì il suo lavoro diffamazione a mezzo giudice. A rischio della vita Alemi seguì con ostinazione e provò la pista del patto tra esponenti dello Stato, Br e Nuova camorra organizzata. Un'intesa raggiunta col frenetico andirivieni di funzionari dei servizi, di camorristi latitanti, di esponenti Dc e della massoneria come Francesco Pazienza nel carcere di Ascoli Piceno, dove il boss era detenuto.
Da magistrato in pensione Alemi ne parla ora con “l’Espresso”: “Mi sembra incredibile - dice - che il dottor Cirillo abbia oggi fatto quelle affermazioni, totalmente discordanti peraltro con quanto affermò, in mia presenza ed al mio indirizzo, il 19 maggio 2008, all’Università Suor Orsola Benincasa di Napoli, in occasione della presentazione del documentario “La trattativa” del programma Rai “La storia siamo noi”, allorché mi disse: “Anzi penso che mai come in questo momento avremmo tutti bisogno di magistrati coraggiosi e onesti come lei”. Non credo possa essere considerato “onesto” un magistrato che utilizza il proprio lavoro per “danneggiare un partito politico”. “Mi sembra di tornare – racconta Alemi – ai giorni in cui subivo attacchi di ogni sorta ed ero dipinto come il giudice comunista che utilizzava il proprio lavoro per distruggere la Democrazia Cristiana.
Per tali false affermazioni, il direttore del Mattino dell’epoca, fu condannato per diffamazione nei miei riguardi. Il procedimento disciplinare "tempestivamente" attivato nei miei confronti dal Ministro della Giustizia si concluse con il riconoscimento della totale correttezza del mio operato. Eguale sorte ebbe il procedimento per diffamazione attivato nei miei confronti dall’onorevole Scotti. Le conclusioni della mia istruttoria, secondo cui c’era stata una trattativa con le Br e la Nco, da parte dei massimi esponenti dei Servizi e del Ministero, oltre che di esponenti politici Dc, sono state pienamente confermate oltre che dalla sentenza di appello - confermata in Cassazione - anche dalle due commissioni di inchiesta parlamentare che hanno indagato sulla vicenda.
Che il partito Dc abbia partecipato alla trattativa con il consenso, o quanto meno "con l’avallo" dei massimi esponenti del partito - l’allora segretario Flaminio Piccoli e l’onorevole Gava -, difatti, non l'ha affermato solo il giudice Alemi, ma - aggiunge il magistrato - lo ha confermato la sentenza definitiva del processo che ha concluso per la “sostanziale verità dell’affermazione, secondo cui la Dc aveva trattato con le Br per Cirillo con l’intermediazione della camorra di Cutolo”. Insomma non fu Cutolo a ricattare o minacciare, furono i ras della Balena Bianca a cercarlo per agganciare i brigatisti.
Nei documenti parlamentari la realtà è consacrata già nel 1984 dal comitato parlamentare per i servizi di informazione e sicurezza, presieduto dal senatore Libero Gualtieri, e nel 1993 dalla commissione antimafia con la presidenza di Luciano Violante. La relazione Violante, approvata dalla commissione, sanciva che “la negoziazione, decisamente smentita nei primi tempi, è oggi riconosciuta senza infingimenti”.?Nelle audizioni a Palazzo San Macuto il prefetto Parisi e il generale Mei, ai vertici dei servizi all'epoca dei fatti, ammisero la trattativa. Lo stesso fece Vincenzo Scotti, ministro degli Interni della Dc nei primi anni '90, però negando di avervi partecipato.
“L’onorevole Scotti e la Democrazia Cristiana – ricorda Alemi – avevano querelato l'Unità per la vicenda del falso documento del Viminale, in cui si attestavano le visite a Cutolo in carcere dello stesso Scotti e del senatore Patriarca. Ma se a Scotti i giudici diedero ragione, al partito no, arrivando ad assolvere il direttore Petruccioli dal reato di diffamazione ed a condannare il partito Dc alle spese del procedimento. Pertanto quel documento, falso nella forma, fu ritenuto veritiero nella sostanza”. Raffaele Cutolo, memore di quelle promesse mai mantenute, in un'intervista a Repubblica l'anno scorso tornò a lanciare sinistri messaggi dalla cella del 41 bis. “Rifiutò ancora una volta di fornire la sua versione dei fatti, assumendo che, se avesse parlato, avrebbe potuto far ballare mezzo Parlamento, anche perché molti di quelli che oggi sono ai vertici delle istituzioni sono o tuttora protagonisti oppure eredi e promanazione di quelli che allora chiesero il suo aiuto. Se usa questo linguaggio, certo - riflette Alemi - si rivolge a personaggi attivi ai suoi tempi e operativi anche oggi. Ma, evidentemente, nessuno ha interesse a scoprire chi essi siano e quali i reali termini della trattativa, che ha sicuramente costituito una delle pagine più sporche nella vita della nostra Repubblica”. Pagine che a molti fa comodo dimenticare.?