UN CAPITOLO DEL LIBRO La fondina a destra e 'il Manifesto' sotto braccio
Il poliziotto Mancini non è un eroe. Negli ultimi anni della sua vita ha tentato in tutti i modi di sfuggire a questa etichetta. Lui sapeva bene che gli eroi servono a pulire la coscienza di chi non si sporca le mani. È comodo indicare l'eroe e poi starsene sul divano a guardare le imprese dei tanti paladini che salveranno questo mondo. Mancini è stato il primo poliziotto a investigare sui rifiuti tossici. Le sue indagini hanno anticipato di quasi due decenni la scoperta del disastro ambientale in alcune zone della Campania, la cosiddetta Terra dei fuochi.

Quando era nella Criminalpol, a metà degli anni Novanta, Mancini ha smascherato la connivenza tra imprenditoria e camorra; tra politica, massoneria e bassa manovalanza criminale. Il risultato della sua inchiesta è scritto nero su bianco in un’informativa che, per qualche sconosciuto motivo, è rimasta chiusa in un cassetto per più di dieci anni. Mancini ha completato quel documento ormai storico senza mai curarsi dei rischi che correva. «Voglio credere che allora non fossero ancora maturi i tempi e l’opinione pubblica non fosse pronta» ha detto il poliziotto poco prima di morire commentando il fatto che le sue indagini fino a quel momento fossero state ignorate. I suoi sopralluoghi sui terreni inquinati e l'aria avvelenata respirata durante l'inchiesta sono stati la causa della malattia che lo ha ucciso lentamente.
La storia di Roberto adesso è un libro dal titolo "Io, morto per dovere" in uscita il 12 febbraio. Scritto dai giornalisti Luca Ferrari e Nello Trocchia, edito da Chiarelettere, con la prefazione di Beppe Fiorello e la postfazione della moglie Monika Dobrowolska Mancini. La vita del poliziotto che scoprì la terra dei fuochi sarà anche un fiction (in onda il 15 e il 16 febbraio su Rai Uno), e sarà proprio Fiorello a interpretare Mancini. Il libro è un racconto intimo della gioventù di Roberto.
Gli scontri coi fascisti e le sassaiole negli anni caldi delle rivolte, il sogno della rivoluzione, la vicinanza a Democrazia proletaria, la ferma condanna della lotta armata. E infine, quando il sogno di un mondo migliore era ormai stato distrutto dal piombo dei terroristi rossi e neri e dal compromesso storico, la scelta di entrare in polizia, «perché bisogna provare a cambiare il sistema dall'interno», tenendo sempre ben distinte la parola legalità dal concetto di giustizia sociale, che non sempre coincide con la prima. Frammenti di vita, speranze e illusioni, che gli autori riportano fedelmente facendo parlare i testimoni di quel periodo e gli amici più cari di Mancini.
La prima parte del libro è un flusso di emozioni. La passione politica e l'impegno che pagina dopo pagina si trasformano in delusione per come evolve la società, stretta tra violenza e ingiustizia sociale. Ma “Io morto per dovere” è soprattuto un focus sul lavoro del poliziotto comunista. Le sue inchieste, le sue informative, i suoi rapporti inediti inviati alla procura antimafia di Napoli. Nomi, cognomi, affaristi dei rifiuti, massoni, politici complici che negli anni sono stati promossi a incarichi di prestigio. Un buco nero della democrazia dove regna il malaffare.
Tutto questo, Roberto, l'aveva scritto prima di tutti gli altri detective. L'aveva intuito e indagato. L'informativa più importante di tutte è quella dei primi anni '90. Lì, tra quelle pagine intestate Criminalpol, c'era già tutto il sistema svelato dalle inchieste del 2000. Gomorra, Mancini, l'aveva conosciuta e raccontata due decenni fa. Ma nessuno lo ascoltò. Fino a quando un magistrato di Napoli non ha alzato il telefono e lo ha chiamato nel suo piccolo ufficio del commissariato di San Lorenzo. La richiesta del pm è semplice: gli chiede di sbobinare tutte quelle telefonate della sua vecchissima informativa perché gli servono nel processo contro Cipriano Chianese, l'inventore dell'ecomafia, il broker dei veleni, ora sotto accusa per disastro ambientale. Finalmente, l'impegno di Mancini viene riconosciuto. Chianese ha lavorato indisturbato fino ai primi anni del Duemila. Nelle discariche gestite da Chianese sono finite le schifezze d'Italia. Rifiuti industriali delle aziende del Nord. E rifiuti “legali” con l'autorizzazione dello Stato.
Eppure, quel Chianese è lo stesso che Mancini descriveva, già nel '90, come un pezzo grosso del business illegale della “monnezza”. Quando era un avvocato, di Forza Italia, candidato al Parlamento. A metà tra massoneria, camorra e politica. Una cerniera tra tre mondi, i cui interessi stavano avvelenando una terra bellissima e fertilissima. Se solo quel documento eccezionale fosse stato considerato nella sua importanza probabilmente quei territori non sarebbero stati uccisi. Ormai è tardi per impedirlo. L'omicidio ambientale è compiuto. Roberto Mancini è morto di tumore. I complici insospettabili del clan dei rifiuti hanno fatto carriera.
Ma non tutto è finito, non tutto è perso. C'è ancora una speranza per Roberto. È nell'opera di verità che sta cercando di compiere il pool antimafia della procura di Napoli. Il magistrato Alessandro Milita rappresenta l'accusa contro Chianese. In quel processo i rapporti firmati Mancini stanno giocando un ruolo decisivo. Dà fastidio alla camorra anche da morto. E in fondo, il compagno Roberto è contento così.