Si stima siano intorno ai 400mila nel Paese, ma non ci sono dati certi. Gli autistici in Italia, specie i casi gravi, si scontrano con politiche assistenziali carenti sia sul fronte sanitario che su quello scolastico. E compiuti i 18 anni perdono ogni tutela e l'unico punto fermo restano i genitori. Ma cosa succede quando non ci saranno più?
Disabili invisibili. In Italia i malati di autismo vengono spesso chiamati così. Invisibili allo Stato, ai bilanci degli enti locali, agli specialisti negli ospedali, agli insegnanti nelle scuole. Fantasmi da maggiorenni, quando la diagnosi scompare e centri diurni e residenze, spesso antitesi di inclusione e integrazione, prendono il posto di lezioni e compagni di classe. Il 2 aprile si celebra la nona Giornata mondiale della consapevolezza sull'autismo, istituita dall'Onu nel 2007.
Luci blu illuminano il globo per un giorno.
Monumenti e palazzi istituzionali di tutto il mondo si accendono del colore della conoscenza. Ovunque si parlerà di autismo, o sindrome di Kanner, disturbo neuro-psichiatrico sviluppato in età infantile, con ampia varietà di sintomatologie per lo più caratterizzate da incapacità di costruire relazioni sociali, da disordini del linguaggio, da fenomeni rituali e compulsivi. Dalla sindrome non si guarisce, semplicemente si lotta per renderla compatibile con le sfide del quotidiano.
Convegni e dibattiti con i massimi esperti sul tema, aggiornamenti sul piano scientifico, iniziative nelle scuole, campagne, raccolte fondi, slogan lanciati da associazioni e fondazioni, hashtag dedicati. Anche l'Italia si illumina di blu, da nord a sud, dai grandi ai piccoli centri urbani, anche l'Italia oggi apre tavoli di confronto, discute di autismo e studia modelli virtuosi di assistenza socio-sanitaria. Poi però, servono le azioni.
[[ge:rep-locali:espresso:285189251]]Si stima che nel Paese il numero di autistici oscilli intorno ai 400mila, ma dati certi non esistono. “Non vengono censiti a livello nazionale, c'è qualche indagine regionale, in Emilia Romagna e Piemonte il numero è di tre, quattro bambini su mille” spiega
Liana Baroni, mamma di Matteo, 39enne autistico, e presidente nazionale di Angsa Onlus, associazione di genitori con figli autistici attiva da trent'anni.
Non è semplice contarli, nonostante i passi avanti nella diagnosi precoce, perché qualunque dato si riesca a raccogliere, esclude la fascia adulta. L'autismo in Italia è classificato come patologia dello sviluppo, esiste fino ai 18 anni, poi per le famiglie si apre il baratro. “Le istituzioni abbandonano uomini e donne con sindrome autistica, specie i casi più gravi, finiscono in una categoria generica di disabilità intellettiva, senza alcun tipo di intervento specifico”. Fino ad allora si sopravvive, tra liste d'attesa e servizi più o meno efficienti.
Il bimbo viene preso in carico dalle Asl per diagnosi, terapie farmacologiche e percorsi riabilitativo-comportamentali. A scuola è seguito durante le lezioni, per tutto il ciclo scolastico obbligatorio, da un insegnante di sostegno, come disposto dalla legge 104. E i Comuni pensano all'affiancamento di operatori sociali sul piano educativo. Certo, non mancano le falle. I tre piani di assistenza dovrebbero interagire creando una rete di supporto mirata intorno al bambino, come stabilito dalle Linee guida emanate dall'Istituto Superiore di Sanità nel 2009, poi integrate e riconfermate nel 2011. Si chiama percorso di vita, e a normarlo ci sarebbe un provvedimento addirittura del 2000, la legge quadro 328. Ma nessuno la applica. Mancano fondi, risorse umane, formazione. E la macchina si muove a compartimenti stagni.
La scuola lamenta insegnanti poco formati. “Arrivano dalle graduatorie del Miur – spiega Baroni - ma non sempre hanno competenze specifiche. Può capitare che un laureato in psicologia con specializzazione nella sordità venga affiancato a un bimbo autistico. Così si perde ogni valore pedagogico del sostegno”. E le Asl fanno a cazzotti con poche risorse e poco personale, per quanto non manchino i tentativi di applicare un vero modello di assistenza integrativa. “Il nostro è un lavoro avanzato, mirato insieme alla scuola alla realizzazione di percorsi personalizzati” ci spiega il commissario straordinario della Asl Roma1, il dott. Angelo Tanese. Un servizio virtuoso, se non dovesse fare i conti con lunghissime liste d'attesa. Un limbo di anni.
“Sul nostro territorio, che serve circa 500mila abitanti, abbiamo in carico 4mila bambini che rientrano nella fetta della disabilità psichica – aggiunge il dott. Bruno Spinetoli, neuropsichiatra infantile dell'ente sanitario - di questi 376 sono autistici. Fuori ad aspettare ne restano circa 150, non abbiamo personale a sufficienza”. Idem per gli enti locali: che i tagli ai bilanci puniscano il sociale non è una novità.
L'intero sistema promette di migliorare con la legge 134, approvata ad agosto dalla commissione Sanità del Senato in sede deliberante: la prima legge italiana sull'autismo. Tra le novità, la patologia viene inserita per la prima volta nei cosiddetti LEA, i livelli essenziali di assistenza, garantendo prestazioni sanitarie gratis e cure personalizzate, con approccio multi professionale, uniformi per tutte le regioni. Chi non le applicherà non potrà più accedere ai finanziamenti integrativi del Fondo sanitario.
“E' una legge spartiacque, finalmente tutti i servizi resi sul piano sanitario assistenziale diventano un diritto assoluto, sempre esigibile. Le famiglie non potranno più sentirsi dire 'per vostro figlio non c'è posto'” commenta Giovanni Marino, presidente della federazione Fantasia e della fondazione Marino Onlus, genitore di due ragazzi autistici, nel gruppo di lavoro che ha redatto le Linee guida ministeriali. Ma a smontare il provvedimento ci pensa l'articolo 6: "Dall’attuazione della legge non dovranno derivare nuovi oneri per la finanza pubblica”. Tradotto: i fondi non ci sono.
Intanto l'adolescente autistico compie 18 anni, e ad oggi perde tutto. Il contatto con la normalità dei banchi di scuola, la diagnosi e di conseguenza le specificità d'intervento. E qui le possibilità, contando solo sul pubblico, sono due: restare mattina, giorno e sera in famiglia, riducendo al minimo interazione e apprendimento, o passare la giornata nei centri diurni ex art.26 L.833/78, strutture che gravano sul bilancio della sanità pubblica, pensate per fornire piani riabilitativi a disabili di diversa natura.
Sono accreditati dalle Regioni, ma mantengono un'autonomia di fatto nella gestione dei finanziamenti e nella scelta dei pazienti. Gli autistici gravi, quelli più costosi e con livello zero di autonomia, restano fuori. “Mio figlio Mario ha 26 anni, ne ha aspettati sette in lista d'attesa, è un caso grave che necessita di un'assistenza con rapporto 1 a 1, in questi centri c'è un rapporto 1 a 7, e l'unica volta in cui è stato accettato è stato chiesto a noi di pagare l'operatore”. Si sfoga
Elena Improta, presidente dell'associazione Oltrelosguardo Onlus e consigliera municipale di Roma Capitale, puntando il dito contro “un sistema assistenziale che non funziona per tutti”.
Dopo mesi di protesta sotto la regione Lazio e scioperi della fame, è riuscita a ottenere un progetto individuale di 180 giorni, rinnovabile, per il figlio, tramite un provvedimento ad hoc della Asl. “Sono un'eccezione, è servita la protesta”. La realtà, per molti genitori di casi severi, resta la porta in faccia. "
Matteo è stato rifiutato da 18 centri. Ci siamo sentiti dire di no per 18 volte, ha idea di che significa?". Maria, 63 anni, romana, vedova e madre di un ragazzo di 34 affetto da autismo grave, aspetta da mesi che un centro prenda in carico il suo ragazzo.
Non sono casi rari, il dott. Spinetoli ce lo conferma: “Abbiamo tantissime situazioni del genere, ma non abbiamo poteri di intervento come Asl. E' un problema enorme. Conosco famiglie che hanno venduto casa per pagare terapie private”.
Per i meno gravi, qualche raggio di sole alimenta la speranza di costruire un futuro. L'autistico ad alto funzionamento può tentare la strada dell'università. A Roma, come in altre città, esistono dei percorsi di studio protetti, anche se la figura del tutor è ancora a carico della famiglia. E qualche piano di inserimento nel mondo del lavoro, più programmatico che operativo, sviluppato nei rari casi dalle regioni con fondi sociali europei. Qualche ragazzo ce la fa.
A tutti gli altri restano i genitori come unico punto fermo, il solo, vero, ammortizzatore sociale. Cosa accade quando non ci sono più?
E' il “dopo di noi”, e fa ancora più paura. Per gli adulti autistici rimasti soli, o privi di una solida struttura familiare alle spalle, ci sono le Rsa, strutture residenziali a copertura totale che accolgono i più svariati tipi di disabilità, psichica e motoria, senza garanzia di alcun tipo di percorso abilitativo.
“Sono dei carrozzoni, dei pollai, le uniche attività che fanno sono mangiare e dormire. E' la morte dell'anima pensare che Tommy ci debba finire”.
Gianluca Nicoletti, giornalista di Radio24 e padre di un ragazzo autistico che da poco ha varcato la soglia dei 18, si scaglia da sempre contro “realtà che somigliano a manicomi”. Sul blog
Per noi Autistici dà spazio a storie di abbandono e solitudine, famiglie che girano l'Italia per trovare un tetto al figlio. “Sto raccogliendo più testimonianze da tutto il Paese, finiranno nel film 'Tommy e gli altri', e ascoltando, filmando, scrivendo, mi rendo sempre più conto dell'enorme vuoto istituzionale che circonda le nostre esistenze”.
Certo, non mancano realtà d'eccellenza. Piccole residenze messe in piedi da genitori che si uniscono per realizzare realtà sostenibili intorno ai figli. C'è la Cascina Rossago a Pavia, o la Fondazione Marino in provincia di Reggio Calabria. Non generici contenitori di disabilità, ma luoghi dove raggiungere una buona qualità di vita, in contesti di abilitazione permanente. Spesso ricalcano il modello della comunità agricola residenziale: nuclei di una decina di ragazzi e adulti impegnati quotidianamente in lavori manuali legati alla terra. Ma restano gocce nel mare, progetti pilota che ancora una volta non esisterebbero senza famiglie.
Sulla carta sono i modelli positivi guardati dal disegno di legge sul “dopo di noi”, passato il 4 febbraio alla Camera, un testo unico bipartisan voluto da Pd e Lega. Tra le novità, l'istituzione di un fondo, circa 240 milioni di euro in 3 anni, 90 disponibili da subito, che servirà, con la partecipazione di regioni, enti locali, organismi del terzo settore o privati a realizzare “programmi e interventi innovativi di residenzialità” e alla creazione di “case famiglia”. Si prevede inoltre che i trasferimenti di beni e diritti a causa di morte (per donazione, trust o a titolo gratuito) siano esenti dall’imposta di successione e donazione.
Novità importanti. “Per la prima volta non si parla di camici bianchi intorno ai disabili: il profilo di questa legge è sociale e non sanitario" il commento in Aula della deputata Pd, Ileana Argentin, promotrice delle nuove norme, applaudite sì, ma non da tutti. Restano critiche - "un favore alle assicurazioni e ai privati" per i Cinque Stelle che hanno votato contro – e una serie di punti interrogativi. Come avverrà concretamente la gestione dei fondi? Sono abbastanza per garantire un mantenimento del nuovo sistema? “Aspetto a pronunciarmi, dobbiamo ancora capire bene che fine faranno questi stanziamenti – commenta Nicoletti - è fondamentale un'azione di monitoraggio, se i fondi vanno alle famiglie che presentano progetti individuali per i figli dobbiamo assicurarci che vadano effettivamente lì. Non basta dare i soldi, servono controlli e organizzazione su più livelli”. Serve lo Stato, lo stesso che fin'ora è mancato.