Basta depistaggi e azioni diplomatiche poco incisive. La battaglia per la verità deve andare avanti. E la piattaforma dell’Espresso è un’ottima opportunità. L'intervista alla madre del ricercatore ucciso

Quando lo scambio di informazioni fra gli investigatori egiziani e quelli italiani sull’uccisione di Giulio Regeni si è trasformato in una grande finzione, perché l’Egitto si è rivelato «tutto chiacchiere e distintivo», il governo di Matteo Renzi ha pensato bene di richiamare l’ambasciatore. Voleva essere un segno di protesta che però ben presto si è trasformato nel nulla. Perché il ritiro del diplomatico italiano, in pochi giorni, è stato trasformato in un cambio di ambasciatore e non più in un’azione contro gli egiziani.

Era il 9 aprile e Giulio era stato trovato morto alla periferia del Cairo da due mesi e mezzo. Davanti ai giornalisti Renzi faceva la voce dura con gli egiziani, puntando sull’azione diplomatica. Se la Farnesina, d’intesa con Palazzo Chigi, ha deciso il richiamo è perché il governo egiziano, dopo aver fatto trapelare una certa disponibilità a collaborare nell’accertamento delle responsabilità dell’omicidio, è tornato alla tattica del muro di gomma.

Sulla carta non ci sono spiegazioni logiche del motivo che impedisce al presidente Abdel Fattah al Sisi di rispondere alla richiesta di collaborazione da parte dell’Italia, suo maggiore partner economico nella Ue. Forse proprio per questo l’Italia ha fatto quella scelta: il ritiro dell’ambasciatore è una misura a tempo, che obbliga l’Egitto a fare qualcosa di significativo, pena ulteriori conseguenze negative. A questo punto si pensava che solo al Sisi fosse in grado di arginare una crisi con l’Italia che avrebbe potuto costargli molto in sede di relazioni con l’Europa. Ma poi queste conseguenze non ci sono state. La Farnesina ha nominato un nuovo ambasciatore, che prima o poi dovrà chiedere il “gradimento” ad al Sisi. Di tanto in tanto si rincorrono voci di scambi di carte giudiziarie fra i magistrati egiziani e quelli italiani. Peccato però che i documenti finora arrivati alla procura di Roma siano evanescenti o poco rilevanti ai fini delle indagini. Dell’azione politica del governo Renzi sull’Egitto si sono perse le tracce. Come mai?

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27/5/2016
La mamma di Giulio, Paola Defendi Regeni, lancia un appello: «Tutti quelli che sanno, hanno visto o sentito cosa è successo a Giulio in quei terribili otto giorni, lo dicano».

Signora Regeni, in questi mesi abbiamo assistito a un continuo proliferare da parte dell’Egitto di indagini poco serie, fatte di depistaggi e di ostacoli nella collaborazione con gli investigatori e i magistrati italiani. Come lo spiega?
«Io non sono un’esperta di politica egiziana, molti dettagli li scopro adesso, in questo periodo in cui la mia vita, cammin facendo, mi sta portando a seguire lo svolgimento delle indagini sulla morte di Giulio e tutto quello che si sviluppa e si amplifica attorno a questo caso. Depistaggio è una parola che è divenuta parte del nostro lessico familiare, fin dalla comunicazione che abbiamo avuto della scomparsa di Giulio da parte dell’ambasciatore Maurizio Massari, nello stordimento emotivo, abbiamo iniziato ad intuire che altro doveva ancora accadere. La sparizione, e poi la tortura a morte di Giulio, è probabilmente l’espressione di un ingranaggio enorme, che gira, forse su se stesso, non si ferma e non mostra mai una parte definita. Ci rimanda sempre più lontano. Ecco, questo per me è il processo che sottende ai depistaggi. Vorrei fermare tutto ed avere un’immagine definita e chiara. Per trovare la verità: perché hanno fatto tutto questo male a Giulio? Chi lo ha permesso? Chi pensavano che fosse? Perché non si sono fermati? Chi ha incontrato prima e durante il suo interminabile tempo del male? Cosa avrà pensato? Perché non pensare che era uno straniero e che ci sarebbero state ripercussioni politico-diplomatiche? Tra i vari depistaggi ho sempre molto presente il vassoio d’argento con i documenti di Giulio e altri effetti personali totalmente estranei a mio figlio. Mi sembra una rappresentazione teatrale, i documenti sono i soggetti che recitano e che forse ci parlano. Questa immagine nelle varie ore successive alla pubblicazione è cambiata, togliendo, aggiungendo oggetti volevano indurre a sospettare di Giulio, alludendo a un’identità che non gli appartiene e distrarre l’attenzione dai colpevoli».

Su questa storia di Giulio, lei e suo marito vi siete sentiti presi in giro?
«Forse qualcuno ha sottovalutato la tenacia che mettiamo nella ricerca della verità per nostro figlio. Ma abbiamo tante persone che ci sostengono e ci chiedono di non mollare. Chi lo ha ucciso, alla fine? Su ordine di chi? Chi sta coprendo la verità? Per questo è importante che tutti collaborino. Non solo chiedendo, ma offrendo verità: la piattaforma creata da “l’Espresso” è un’ottima opportunità. Chiunque sa, ha visto o sentito cosa è successo a Giulio in quei terribili otto giorni, lo dica. Ora può farlo con la garanzia di massima riservatezza. Abbiamo bisogno di verità, se vogliamo giustizia, non solo per Giulio ma per tutti gli egiziani che vedono violati i loro diretti umani».

Chi non ha fatto il suo dovere?
«Questo ancora non lo possiamo sapere. Forse ci sono persone che sanno qualcosa e non parlano per paura? Forse abbiamo bisogno di tante tessere, di tante piccole verità, per trovarne una grande: perché? Chi ha preso e torturato Giulio?».

Il governo italiano cosa fa?
«Mi piacerebbe che spiegasse all’opinione pubblica il motivo del cambio di ambasciatore e che garantisca la chiara determinazione a mantenere la linea di non rimandarlo in Egitto; fino a quando non sapremo la verità e avremo giustizia. Prendendo tutte le misure politiche e diplomatiche necessarie, nel caso di mancate risposte o menzogne trasformate in verità per chiudere la vicenda».

Cosa si può ancora fare per avere verità?
«Bisogna andare avanti e costruire politicamente e diplomaticamente le condizioni perché la procura egiziana collabori effettivamente con quella italiana nella quale riponiamo la massima fiducia. Alla nostra storia ormai s’intrecciano relazioni e avvenimenti mondiali, dall’Egitto ci vorrebbe solidarietà, non contrapposizione».

Che idea si è fatta di questa triste vicenda in cui Giulio è stato torturato e ucciso?
«Mi sono chiesta spesso se ci voleva proprio Giulio, uno come lui, per far emergere una situazione sulla violazione dei diritti umani in Egitto, di cui l’opinione pubblica, direi mondiale, poco o nulla sapeva».

Giulio è diventato il simbolo di una giustizia negata e di diritti umani violati.
«Sta emergendo con forza la figura simbolica di Giulio. Se da una parte mi rende orgogliosa, dall’altra, con immenso dolore, penso che ha pagato un prezzo troppo alto. Nessuno deve subire quello che ha subito Giulio, neppure una minima parte. Lui non era in Egitto per motivi politici ma per fare una ricerca di studio. In Egitto so che molte persone “confidano” sull’attenzione che la sua uccisione ha suscitato, come possibilità per far sapere al mondo quali sono le loro condizioni di vita e soprattutto quanto sia difficile esprimere liberamente pensieri e opinioni».

In Egitto molti fra coloro che si avvicinano alla tragedia di Giulio pagano le conseguenze della loro ricerca di verità.
«Stiamo assistendo all’intensificazione del numero di persone che subiscono azioni dirette sia d’intimidazione che di carcerazione, per essersi interessati alle indagini su Giulio. Proviamo a elencare quelle di cui abbiamo notizia: Malek Adly l’avvocato per i diritti umani che voleva vedere Giulio all’obitorio nella giornata del 4 febbraio, il giornalista Amr Badr che si è occupato della vicenda, Ahmed Abdallah, presidente della Commissione egiziana per i diritti e le libertà (Ecrf) che è in carcere dal 25 aprile in custodia cautelare prorogata nella scorsa udienza del 21 maggio per altri quindici giorni; Mena Thabet, direttore dell’ufficio per le minoranze e i gruppi emarginati della stessa Ecrf (ong nostra consulente al Cairo) e infine il direttore dell’agenzia Reuters del Cairo».

Per questo avete lanciato un appello?
«Sì, affinché i consolati, la stampa, le ong facciano sentire la loro pressione e monitorino senza sosta quanto sta avvenendo in Egitto. Verità per Giulio è ormai una richiesta della società civile mondiale che riguarda non solo la nostra famiglia ma è diventata un’esigenza ineludibile di giustizia e libertà per il popolo egiziano. Giulio lo amava e ci ha insegnato a rispettarlo».

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