Non solo Lampedusa, Lesbo, Calais. I rifugiati nel mondo sono molti di più e concentrati ?in altri Paesi: dalla Turchia all’Etiopia. Perché la fuga da fame e guerre è un'emergenza globale

Lesbo, Lampedusa, Calais. La geografia europea della crisi dei migranti ha nomi che in poco tempo sono diventati familiari al grande pubblico. Sono i luoghi che fanno da sfondo alle traversate di chi scappa in cerca di una vita migliore. Come Jasmine, bambina albina sbarcata in Sicilia insieme ai genitori e in fuga anche dalle discriminazioni di cui era vittima in Nigeria a causa della sua anomalìa. O come Tahgi, arrivato in Grecia da Kabul con la moglie e la figlia. Oppure Farad, che dal Sudan si è avventurato fino alla “Giungla” sulla Manica per raggiungere il Regno Unito.

A seconda delle sensibilità, l’emergenza profughi è accolta da noi con commozione o paura. È un’invasione che stravolgerà la nostra civiltà, dicono i catastrofisti. Di certo, dati alla mano, è un fenomeno mondiale che solo in piccola parte colpisce l’Europa.
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Se guardiamo ad esempio la classifica dei Paesi che accolgono più rifugiati, nei primi 10 posti non ce n’è neanche uno dell’Ue. Secondo l’Unhcr, l’agenzia Onu per i rifugiati, in vetta ci sono infatti la Turchia (1,84 milioni), il Pakistan (1,5) e il Libano (1,2). Seguono Iran, Etiopia, Giordania, Kenya, Uganda, Chad e Sudan.

Stesso discorso se si calcolano quali Paesi spendono di più per l’accoglienza in relazione al proprio Pil (sul podio ci sono Etiopia, Pakistan, Uganda), mentre nella classifica che valuta il rapporto tra abitanti e rifugiati ospitati spuntano due europei al nono e al decimo posto, Svezia e Malta, ma in testa ci sono Libano, Giordania e l’isola di Nauru.

Nel 2016, peraltro, non è peggiorata solo la situazione del Mediterraneo e della Siria in particolare, ma anche di aree lontane dall’Europa come Sud Sudan, Nigeria e Yemen, dove è cresciuto vorticosamente il numero di sfollati interni (due mesi fa erano rispettivamente 1,7 milioni, 2,2 e 2,7, con lo Yemen che ha visto una crescita del 708 per cento rispetto a due anni prima), mentre i loro profughi hanno trovato riparo soprattutto in Etiopia, Uganda, Kenya, Niger, Camerun, Oman, Arabia Saudita e Gibuti.

Sono dati che vale la pena ricordare nella settimana in cui l’Unhcr celebra la Giornata mondiale del rifugiato, un appuntamento che fino a qualche anno fa si legava a un fenomeno tutto sommato secondario per le vite dei cittadini europei, ma che oggi sempre più è diventato una questione quotidiana, sia per chi la incrocia per le strade delle nostre città, sia per chi la avverte attraverso la tv, lì moltiplicata in intensità a causa della propaganda di chi soffia sul fuoco dell’intolleranza.

Non è dunque l’“uomo bianco”, l’Occidente ricco, non siamo insomma noi e le nostre comunità i più sconvolti dalle migrazioni globali.

Nel mondo, sempre secondo l’Unhcr, nel 2015 erano 59,5 milioni i migranti forzati, dei quali 38,2 milioni sfollati all’interno del proprio Paese, 1,8 milioni in attesa dell’esito delle domande di asilo, e 19,5 milioni rifugiati. Di questi ultimi - che per la metà erano minorenni e che sempre in un caso su due vivono in slum o aree urbane - solo 200 mila sono stati nel frattempo ricollocati altrove.

Secondo i calcoli di “The Economist”, nel 2015 i rifugiati registrati erano 15,1 milioni. Ma anche nella mappa del settimanale britannico - che ha utilizzato pure i dati della Nato, del Dipartimento di Stato americano, del Migration Policy Institute e di Refugees International - a colpire era che l’Europa ospitava poco più di un quinto del totale, ovvero 3,49 milioni di persone, meno dell’Africa subsahariana (4,06) e dell’Asia (3,79), e poco più della regione composta da Nordafrica e Medio Oriente (3,01), mentre nelle Americhe c’era solo lo 0,75.

Basterebbe d’altronde ricordare che il più grande campo profughi del mondo è ben lontano dall’Europa, nel cuore del Kenya. Si chiama Dadaab e si trova a sud-est del Paese, a meno di due ore di auto da Garissa, la città in cui nell’aprile di un anno fa i qaedisti di Al-Shabaab hanno ucciso in un raid 147 persone all’interno della locale università. È in realtà un complesso di 5 campi, che ospitano circa 340 mila profughi. Aprì nel 1991 come riparo temporaneo per quanti fuggivano dalla guerra civile somala, ma a causa dell’instabilità che ha continuato a dominare quel Paese si è trasformato in una specie di grande città.

Il campo di Dadaab ha fatto notizia poche settimane fa perché il governo keniota ha deciso che è tempo di chiuderlo. Per le autorità sarebbe diventato un covo di Al-Shabaab e un peso ormai intollerabile per l’economia locale (tutte motivazioni che ricordano molto quelle di chi in Occidente protesta contro gli aiuti ai migranti). La decisione, che potrebbe essere in realtà una minaccia per strappare più soldi alla comunità internazionale, è stata criticata da più parti. «Costringere tutte quelle migliaia di persone a tornare in patria dopo 25 anni di assenza significa calpestare tutta la buona volontà con cui hanno vissuto finora», si è lamentato Ahmed Awad, ambasciatore somalo negli Stati Uniti: «Basterebbe un po’ più di tempo e poi, con l’aiuto internazionale e la collaborazione della Somalia, si potrebbe procedere con un programma di ritorno volontario a casa».

In Asia invece il maggior numero di rifugiati provengono dall’Afghanistan e dal Myanmar. Il 96 per cento dei primi vive in Iran e Pakistan, che perlopiù li ospitano da tre decenni. Invece dal Myanmar (Birmania) oltre 500 mila persone sono scappate negli ultimi decenni. Appartengono a diversi gruppi etnici, ma sono soprattutto rohingya. Nel 2015 la crisi si è acuita, e decine di migliaia di appartenenti a questa minoranza musulmana povera e discriminata hanno lasciato via mare il Paese per cercare di raggiungere il sud-est asiatico.

In America Centrale, infine, negli ultimi mesi l’esodo di chi fugge dalle violenze è arrivato a livelli che, secondo l’Onu, «non si registravano dagli anni Ottanta». Solo l’anno scorso 3.423 persone, perlopiù di El Salvador e dell’Honduras, hanno richiesto asilo in Messico, ovvero il 164 per cento in più rispetto a due anni prima. Il Costa Rica ha visto crescere invece le domande del 176 per cento in due anni: sono state 2.203 nel 2015, soprattutto da parte di profughi di El Salvador.

Le tante immagini e le tante storie che si rincorrono sui media in questi mesi potrebbero produrre un effetto assuefazione nell’opinione pubblica. È bene invece che il livello di attenzione rimanga alto. L’Unhcr - che ha lanciato in questi giorni la petizione #WithRefugees per sollecitare l’impegno dei governi - ha segnalato che serve mezzo miliardo di dollari per sostenere gli sforzi volti ad affrontare quella che è la più grande crisi di dislocamento umano dai tempi della seconda guerra mondiale, e lo si può raccogliere solo con l’aiuto delle fondazioni, delle aziende o dei filantropi.

Le regioni che più hanno bisogno di aiuti secondo l’Unhcr - agenzia che il “New York Times” ha definito a fine maggio una di quelle più sottofinanziate - sono il Medio Oriente e il Nord Africa (servono 373 milioni di dollari), seguite dall’Africa subsahariana (255 milioni) e dall’Asia (59 milioni), mentre l’Europa ha bisogno di “solo” 36 milioni.

Questo non significa che bisogna sminuire la sfida che viene posta all’Ue, che - secondo i dati pubblicati a marzo da Eurostat - nel 2015 ha visto più che raddoppiare il numero di richiedenti asilo, ovvero 1.255.600 persone, con siriani, iracheni e afghani nelle prime tre posizioni, e più di un terzo del totale diretto in Germania.

Significa però che l’Europa non è “speciale”, non è né la sola realtà a dover far fronte a questa crisi, né soprattutto quella che ne è più colpita. «Il fatto che dei siriani arrivino come rifugiati fin nell’Asia orientale e nei Caraibi», dice Filippo Grandi, Alto commissario dell’Unhcr, «dimostra che il fenomeno è globale, e avrebbe bisogno di risposte globali».