Il bonus di 80 euro di Renzi? Costretti a restituirlo ai loro “padroni”. Nel variegato mondo della filiera agroindustriale succede anche questo. Lavoratori gabbati dai datori di lavoro. Paradossi e contraddizioni sono alla base del sistema di illegalità su cui si regge buona parte del mercato. Tanto da assistere alla realizzazione di vere e proprie truffe ai danni degli operai. Visto l'andazzo, alcuni dipendenti hanno sottoscritto dei moduli di rinuncia al bonus, richiedendone poi solo successivamente il conguaglio in sede di dichiarazione dei redditi.
Se ne parla nel rapporto “Filiera sporca”. A testimoniare il raggiro un ex dipendente di un'azienda molto nota di commercializzazione di Catania. Assunto come “strapazziere”, una sorta di facchino come si dice nel gergo locale, ha lavorato per un anno a 40 euro al giorno, «ma anche 30 giorni al mese, senza sabati domeniche o festività, e fino a 12 ore di lavoro al giorno» spiega nel dossier. Il contratto formalmente c'era ma funzionava così: «In busta paga l’azienda segnava meno giornate di lavoro - 10-15 giorni al mese al massimo - e per raggiungere il totale pattuito dal contratto veniva inserito un premio di produttività». In questo modo non venivano maturate nemmeno le giornate necessarie al sussidio di disoccupazione. E, inoltre, il bonus veniva trattenuto dagli imprenditori.
«Il contratto copriva i mesi da novembre a giugno, mentre da luglio a ottobre era tutto completamente in nero». E sempre l'ex dipendente che svela altri meccanismi di evasione fiscale e contributiva. Lo sfruttamento non rigarda solo gli stranieri. Anche per gli italiani le cose non vanno meglio. «Ho lavorato per un anno a 600 euro al mese, senza sabati domeniche o festività, nessuno straordinario pagato e fino a 12 o anche 14 ore di lavoro al giorno. Il contratto formalmente c’era, in realtà, però in busta paga l’azienda segnava meno giornate di lavoro - 10-15 giorni al mese al massimo - e per raggiungere il totale pattuito all’atto di stipulazione del contratto – 600 euro - veniva inserito un premio di produttività alla fine di ogni mese». In pratica il contratto copriva 6/7 mesi di lavoro all’anno, da novembre a giugno, mentre da luglio a ottobre era tutto completamente in nero, a 400 euro al mese».
La politica aziendale era «o ci stai o te ne vai: E io per ragioni economiche ho sempre accettato». L’azienda in questione vende nei principali mercati del Nord Italia, mercati che a loro volta riforniscono la Grande distribuzione e anche alcuni mercati esteri. Illegalità diffusa di cui sono consapevoli anche gli addetti ai lavori. Nel rapporto c'è, per esempio la testimonianza di Sammy Fisicaro, responsabile di una delle principali aziende di commercializzazione siciliana, la Colleroni di Paternò, in provincia di Catania.
«Lo sanno tutti coloro che abitano nei nostri territori che la raccolta delle arance è fatta sempre più da personale estero con una paga inferiore al prezzo di tariffa creando concorrenza alla manodopera locale e inficiando la regolare concorrenza tra aziende». Un altro titolare di impresa del territorio conferma: «C’è caporalato e lavoro nero, su 40 magazzini a Palagonia(Ct) ce ne saranno 10 a norma».
Secondo la Flai Cgil la maggior parte delle aziende lavora in una zona grigia, in cui l’evasione contributiva la fa da padrone. Una giornata di lavoro costa circa 68 euro al giorno ma a rispettare questo parametro sono in pochi», spiega Rocco Anzaldi della Flai Cgil del Calatino. In genere i lavoratori risultano formalmente assunti ma la paga quotidiana molto spesso scende a 50 euro al giorno, con picchi al ribasso in qualche magazzino che arrivano a 35-40 euro al giorno.
Il segreto è una sorta di “doppia contabilità”: le buste paga sono formalmente perfette, in modo da non intaccare il diritto al sussidio di disoccupazione, ma spesso i braccianti sono costretti a restituire una parte dei soldi percepiti. Ci sono casi in cui i dipendenti regolarmente assunti prendono gli stipendi “a 90 giorni” come se fossero dei liberi professionisti. Se il contratto prevede un importo inferiore ai 1000 euro è ancora più semplice: non essendoci obbligo di bonifico, le imprese dichiarano meno giornate lavorative e non pagano così i contributi. Ci sono anche casi di “aziende fantasma” in cui le assunzioni di braccianti hanno l’unico scopo di fare percepire ai “braccianti fantasma” l’indennità di disoccupazione, soldi che poi ovviamente devono essere restituiti agli imprenditori.
Un meccanismo scoperto l’8 giugno 2016 dalla Guardia di Finanza di Catania con l’Operazione Tarocco: l'indagine, nata da un monitoraggio delle aziende agricole del Calatino caratterizzate da un alto numero di dipendenti assunti nella stagione della raccolta delle arance, ha accertato una truffa all’Inps per 1,5 milioni di euro indebitamente erogati. Funzionava così: i promotori della truffa, tramite 5 aziende “fantasma”, hanno procurato agli “imprenditori” l’assunzione di 377 falsi braccianti nel periodo 2010-2013 per un totale di circa 66 mila giornate lavorative. Le somme percepite dovevano poi essere restituite ai promotori della truffa a titolo di compenso per le false attestazioni effettuate.
L’indagine ha permesso di accertare anche l’omessa dichiarazione di circa 28 milioni di euro di base imponibile e un’evasione Iva pari a oltre 2,4 milioni di euro. Il paradosso è che spesso il ricorso al lavoro nero sembra persino incentivato dal sistema dei sussidi di disoccupazione. È il caso delle “cooperative senza terra”, cooperative agricole che funzionano come agenzie interinali per i produttori e i commercianti di arance. Il meccanismo è ormai oliato: i braccianti agricoli italiani che risultano assunti dalle cooperative sono formalmente in regola ma anziché lavorare per la cooperativa che li ha assunti, lavorano al nero per altre aziende maturando al contempo le giornate contributive per il sussidio di disoccupazione. Al posto loro, nelle campagne di raccolta le Cooperative mandano braccianti stranieri, completamente in nero e pagati 30 centesimi a cassetta di arance raccolte. Totale: 10, 15 euro al giorno. È lo stessa schema utilizzato anche in Emilia Romagna nella filiera della macellazione. Le chiamano cooperative "spurie", fasulle. Immagine plastica del caporalato più evoluto e moderno.
Un altro meccanismo è quello ricostruito dalla Guardia di Finanza di Catania insieme all’Inps di Palermo nel corso di un’operazione che nel 2013 ha portato a un ingente sequestro. In pratica le cooperative fantasma presentavano all’Inps falsa documentazione fiscale e previdenziale che poteva provare i fittizi rapporti di lavoro. Una volta che i braccianti agricoli percepivano l’erogazione indebita, una parte della indennità veniva poi corrisposta agli indagati come una sorta di “compenso” dell’attività illecita.
Sammy Fisicaro ammette:«I problemi di illegalità spesso ci sono soprattutto quando la manodopera è intermediata da cooperative, quando ci è capitato di vedere situazioni non in regola noi lo abbiamo sempre denunciato». Secondo la Flai Cgil, nei territori di Paternò e Siracusa, ci sono almeno 200 cooperative agricole senza terra, che forniscono manodopera soprattutto alle le aziende della commercializzazione.