Perché la battaglia contro la mafia è prima di tutto culturale

Affrontare la realtà anche se non ci piace. Così si combattono le cosche. Ma c’è chi preferisce non guardare. E critica romanzi, film e serie tv come "Gomorra" e "Romanzo criminale". Il libro "Il contrario della paura" di Franco Roberti spiega come affrontare quotidianamente terrorismo e mafie

Proponiamo alcuni stralci ?del libro “Il contrario della paura” ?di Franco Roberti. Nel volume, pubblicato da Mondadori e scritto ?con Giuliano Foschini, il procuratore nazionale antimafia spiega come affrontare, anche nei comportamenti quotidiani, il terrorismo e le mafie

Tempo fa mi è capitato, sfogliando un giornale, di leggere di una strana patologia della psiche, che colpisce principalmente le donne. Si chiama «sindrome di Grimilde», come la strega della favola di Biancaneve: le signore che non si piacciono, spesso a causa di alcune, anche piccole, imperfezioni del proprio corpo, preferiscono non guardarsi allo specchio per non essere messe di fronte alla realtà. Uno strumento di difesa, evidentemente, che però impedisce una possibile risoluzione del problema: se non ti guardi, non sai. E se non sai, non puoi prendere le contromisure necessarie per apparire, anche soltanto a te stesso, migliore.

La «sindrome di Grimilde», però, non colpisce purtroppo soltanto gli uomini e le donne che non si piacciono. Alle volte, di questa patologia si ammalano anche le istituzioni. Che sottovalutano il fenomeno, non capendo che l’associazione mafiosa non è soltanto un delitto contro l’ordine pubblico, ma il più grave delitto contro la democrazia. (…)

Il contrasto alle mafie e alla criminalità organizzata da parte dello Stato, dei poteri pubblici, ha sempre avuto nel nostro paese una gestione emergenziale. E soltanto quando le organizzazioni mafiose sparavano, uccidevano e creavano pericoli per l’ordine pubblico, lo Stato sembrava accorgersi della loro esistenza e interveniva. Come? Intensificando l’azione repressiva. Se invece per un po’ tutto taceva, se le mafie prosperavano in silenzio, se facevano affari e intrecciavano rapporti con la politica e con l’economia, le si trattava come se non esistessero. (…)

Passata l’indignazione del momento, passa anche l’attenzione e dunque la lotta. Lo Stato sembra non partire mai all’attacco, non prende mai l’iniziativa. Risponde sempre con provvedimenti tampone. E questo è possibile proprio per via della «sindrome di Grimilde». Allontanarsi dallo specchio è una maniera per scansare il problema. E raccontarsi una bugia: come se quelle pallottole, quelle stragi, quell’attentato alla libertà di ciascuno di noi, fossero un effetto straordinario. Una malattia rara, quasi misteriosa. E non una patologia sistemica, che abbassa le difese immunitarie, e che ti rende ogni giorno vulnerabile. Invece, è così: le mafie sono un elemento costitutivo, una componente endemica della società meridionale.

E oggi esiste il rischio concreto che in breve tempo possano diventare presto un elemento strutturale, una parte del tessuto sociale anche di altre regioni. Non riconoscerlo significa non curarsi. Non ammetterlo significa aiutare la malattia, essere in qualche maniera complici involontari di chi ci vuole uccidere. Se non guardiamo in faccia la realtà, se continuiamo con i negazionismi ipocriti, paralizzanti, subdoli, faremo il gioco delle mafie che scommettono tutto su Grimilde per infiltrarsi nelle pubbliche amministrazioni e creare quel sistema alternativo al sistema dello Stato e dei poteri pubblici locali. Non guardarsi allo specchio significa non riconoscere che non possono bastare le norme penali a contrastare la criminalità organizzata, ma che occorre intervenire anche sulle cause sociali del loro sviluppo. (…)

La questione è molto delicata. Per questo chiedo a tutti di fare la propria parte: alle associazioni di categoria di offrire la massima assistenza a chi denuncia, e di essere durissimi, invece, con chi paga il pizzo in silenzio. Chiedo alla politica rigide norme sugli appalti pubblici: a Bari, in Sicilia, persino a Milano, ci sono stati casi di pizzo chiesto su lavori effettuati dalle pubbliche amministrazioni. Inaccettabile. Per chiedere questi sforzi, però, è necessario che lo Stato faccia la sua parte. I rapporti sociali funzionano, come funzionano le istituzioni, quando si fondano sulla fiducia. Il concetto di fiducia è fondamentale: se c’è funziona tutto. Fiducia significa affidamento e l’affidamento comporta, inevitabilmente, anche un controllo dei comportamenti. Fiducia è verità (…)

Io credo molto al ruolo della verità. Ecco perché, per esempio, mi sono molto interessato al dibattito sorto attorno a opere come “Gomorra” e “Romanzo criminale”. Parlo anzitutto dei libri - che hanno avuto un enorme successo di pubblico e di critica - ma anche dei film e delle serie tv che hanno ispirato. In comune hanno la caratteristica di essere ambiziosi prodotti italiani. Di essere fatti con grande cura e attenzione: moderni, forti, scritti e girati benissimo. E di occuparsi, chiaramente, entrambi di fenomeni criminali, mafiosi.

Ma ad accomunarli è anche la circostanza di aver suscitato, oltre a un grande successo di pubblico, grandi polemiche. Mi ha colpito, per esempio, che molti sindaci campani si siano rifiutati di far girare alcune puntate della seconda stagione di “Gomorra” nelle loro città. «Non è una buona pubblicità» hanno dichiarato. E poi ancora, la solita teoria: «Noi non siamo soltanto quello», «In televisione dovremmo andare per le nostre bellezze, per le nostre risorse, e non sempre per la malavita» eccetera eccetera. Capisco la reazione, ma allo stesso tempo penso che si tratti di una posizione sbagliata. Per questo non la giustifico.

Non è “Gomorra” che porta i ragazzi a delinquere. È troppo facile pensare che il problema sia “Gomorra”. Il problema è la criminalità che non viene ancora sconfitta. Il problema è lo spaccio per strada, la politica corrotta, il problema è il commerciante che paga il pizzo. “Gomorra”, essendo un prodotto eccellente, non fa altro che rappresentare benissimo quello che succede: lo ha fatto prima nel libro di Roberto Saviano, poi nel film di Matteo Garrone e ora nelle serie di Sky. È un altro pezzo della «sindrome di Grimilde»: non vogliamo guardarci allo specchio? Non vogliamo che in televisione venga rappresentato, seppure con qualche esagerazione romanzesca, ciò a cui noi tutti assistiamo ogni giorno, spesso nell’indifferenza più assoluta? Bisogna avere paura della realtà? Abbiamo paura di noi stessi? “Gomorra”, così come in parte “Romanzo criminale”, fornisce un contributo di conoscenza reale del problema. E fa più paura proprio per questo: perché non è soltanto lo spara-spara.

È anche la famiglia Savastano che sbarca a Milano e osserva i grattacieli nuovi, luccicanti. «Genny, è tutto nostro» dice la madre al figlio in una battuta bruciante, evidentemente semplicistica, ma che contiene tutto. Dire: «Ci fate una cattiva pubblicità» fa molto meno male che ammettere che è vero, purtroppo. Magari non sarà tutto, ma molto di quello che ci è attorno appartiene a loro. Palazzi, bar, ristoranti, negozi. (...)

Non si può accusare gli intellettuali di raccontare la verità. Non si può chiedere a nessuno di chiudere gli occhi: perché anche se si prova a nasconderla, la realtà continua a esistere. Certo, rispetto a questi prodotti sarebbe importante esercitare un giudizio critico. E per farlo, in questo caso, servono i maestri. È necessario investire sulla cultura dei diritti. È necessario spiegare con parole chiare, e mi pare che questo lo facciano persino le fiction, che a seguire quei modelli si finisce sempre male, sempre in un’unica maniera: o al cimitero o in carcere. Non ci sono altre possibilità.

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