In Bangladesh, Shahidul Alam usa le immagini per denunciare violenze e ingiustizie. Pagandone tutte le conseguenze: minacce, botte, torture. Ora rischia fino a 14 anni di carcere. Ma tentare di farlo tacere è inutile: «Sono un giornalista, vedo cosa accade nel mio Paese e devo agire»
C’è il potere repressivo, lo Stato che si fa violenza istituzionalizzata. E c’è il potere di raccontare storie di vita e di ordinaria resistenza. Shahidul Alam resiste al potere repressivo impugnando la macchina fotografica, strumento di lotta politica. «Se devi combattere scegli il mezzo più adatto. Per me è la fotografia. La intendo come un mezzo per un fine: la giustizia sociale», racconta in esclusiva all’Espresso. Fotografo di fama internazionale, Shahidul Alam è stato sbattuto in carcere per 107 giorni con l’accusa di aver danneggiato l’immagine del Bangladesh e diffuso informazioni false. Minacciato, picchiato e torturato, è stato rilasciato il 20 novembre 2018 in seguito a una mobilitazione internazionale a cui hanno aderito Amnesty International e intellettuali come Amartya Sen, Arundhati Roy e Noam Chomsky. In libertà provvisoria, rischia una condanna fino a 14 anni. Un tentativo per zittirlo. Inutile: «Sono un giornalista, un cittadino del Bangladesh. Vedo ingiustizie che accadono nel mio Paese, nei confronti del mio popolo. Ciò esige che io agisca in un certo modo».
Lo fa con ostinazione dal 1984. Rientrato in Bangladesh dopo aver conseguito un dottorato in chimica in Inghilterra, «volevo contribuire alla ricostruzione, ambivo a una società ugualitaria, e mi sono ritrovato a fotografare i manifestanti che lottavano per la caduta del generale Ershad», a capo di un regime militare dal 1983 al 1990. Quegli scatti sarebbero diventati “A Struggle for Democracy”, la prima mostra completa di Shahidul Alam. Molti anni dopo, il 4 agosto 2018 a manifestare per le vie di Dacca ci sono migliaia di giovani, perlopiù studenti. Il malcontento matura da tempo. A catalizzarlo è un incidente stradale. Come nel 1984, lui è in mezzo alla folla. «Erano frustrati, arrabbiati per la corruzione, per il malgoverno, per la violenza delle autorità». Gli studenti reclamano diritti e libertà negati dal governo di Sheikh Hasina. Figlia di Sheikh Mujibur Rahman, il “padre della patria” protagonista della lotta per l’indipendenza dal Pakistan nel 1971, prima ministro e leader dell’Awami League, al potere dal 2009, Sheikh Hasina ha un duplice volto. Per la comunità internazionale è autoritaria ma affidabile. Pugno duro contro gli islamisti radicali, un Pil che cresce al 7 per cento annuo, vanta la stabilità e la gestione del dossier-Rohingya. Per molti bangladesi è il volto della repressione, dell’autocrazia che si finge democratica, della libertà d’espressione ridotta a minaccia collettiva e reato personale.
Quello contestato a Shahidul Alam sulla base di una legge introdotta nel 2006, più volte rivista dal governo e criticata dalle organizzazioni per la libertà d’espressione. «Una legge draconiana che minaccia tutti. Indicativa di ciò che siamo diventati: uno Stato di polizia. La gente era arrabbiata anche per questo, quel giorno». Quel giorno Shahidul trasmette video in diretta sui social, scatta foto ai poliziotti che picchiano gli studenti. Viene aggredito, picchiato a sua volta. Il giorno successivo è di nuovo in strada. Nel pomeriggio concede un’intervista all’emittente al-Jazeera. Denuncia le violenze, l’ingiustizia, la repressione. Poche ore dopo bussano alla porta di casa.
Il suo studio-appartamento, pieno di libri, foto e appunti sparsi, è a Dhanmondi, quartiere residenziale di Dacca. Dalle finestre arrivano ovattati i richiami dei venditori ambulanti, i clacson delle auto nel traffico, il vociare di chi sosta, sigaretta in bocca, intorno ai botteghini del tè. «Verso le dieci e mezzo di sera bussano alla porta. “Zio Shahidul”, chiama una voce giovane di donna. Apro e un gruppo di uomini salta dentro, avventandosi su di me». Shahidul Alam teme il peggio. Conosce le ombre scure del Paese. Nel 2010 ha dedicato una mostra fotografica, “Crossfire”, agli omicidi extra-giudiziali, pratica consolidata che descrive in modo indiretto, con un’estetica concettuale più che realistica. Portato nell’ufficio del reparto investigativo, viene interrogato duramente, picchiato. Minacciano di sequestrare la compagna, l’antropologa Rahnuma Ahmed. È costretto a rivelare le password di computer e telefono. Subisce il waterboarding, come un prigioniero di Guantanamo. La mattina successiva viene trasferito nella stazione di polizia centrale. Il registro cambia. «Mi offrono del cibo, mi dicono che il primo ministro stima il mio lavoro. Sono pronti a dimenticare l’incidente». Non cede. «Non vendo la mia libertà».
Nella sua decisione c’è una lezione di giornalismo. La piena consapevolezza della responsabilità di chi testimonia per conto di altri. «Non appena prendiamo in mano una macchina fotografica ci assumiamo un’enorme responsabilità», spiega all’Espresso. «Siamo i primi testimoni. Tutti i giornalisti lo sono, ma il fotografo deve essere fisicamente lì dove accadono le cose». Gode della fiducia degli altri, «di chi pensa che tu possa dare voce a chi non ce l’ha». In mano ha uno strumento potente. «Ciò non ti rende necessariamente onesto. Il risultato dipende dal fine per cui lo usiamo. Puoi disporre di mezzi potenti e sostenere la corruzione, la violenza, metterti in coda per godere benefici, ricchezza, potere. O puoi stare dall’altra parte».
In Bangladesh il divario è netto. «Si parla di sviluppo, ma la maggioranza lotta ancora per sopravvivere mentre i ricchi diventano sempre più ricchi». Se «i governi non sono mai dalla parte dei poveri, del popolo», la scelta è obbligata. Il criterio non è l’oggettività. Conta decidere da che parte stare. Dalla parte di chi opprime o degli oppressi. «Se c’è una battaglia iniqua e stare sulla difensiva equivale a sostenere lo status quo, si deve stare dalla parte degli oppressi. È più difficile e pericoloso, ma è l’unico posto a cui appartiene un giornalista», nota Shahidul Alam, che negli anni ha cresciuto una leva di foto-giornalisti consapevoli e con la schiena dritta, grazie alla fondazione della Drik Picture Library, del Pathshala South Asian Media Institute e all’organizzazione del festival fotografico Chobi Mela, che quest’anno si è concluso a Dacca il 9 marzo. Su una parete tra la libreria e l’accesso al terrazzo c’è il poster di “1971. The War We Forgot”. La guerra dimenticata è la guerra di liberazione con cui l’allora Pakistan orientale ha ottenuto l’indipendenza, diventando Bangladesh.
«Vivevamo sotto occupazione, speravamo di dare vita a una nazione migliore. Credevamo nel secolarismo, nel socialismo, nella democrazia. I principi per cui si sono battuti i nostri padri fondatori sono stati dimenticati. La Costituzione emendata dai successivi governi». Dopo l’indipendenza, al potere si alternano, tra arresti, intimidazioni, elezioni truccate e omicidi l’Awami League - oggi guidata da Sheikh Hasina - e il Bangladesh Nationalist Party – guidato da Klaheda Zia, in carcere per corruzione e simbolo di «un opposizione priva di forza morale e integrità». A ogni cambio di governo entrambi i partiti selezionano strumentalmente la memoria storica. La gloria passata di martiri e freedom fighters nasconde e compensa l’attuale deficit di legittimità. In comune hanno «la continua negazione della volontà del popolo». Lo dimostrano le elezioni politiche del 30 dicembre. «Le elezioni si sono svolte il 29, non il 30 dicembre. Le urne sono state riempite in anticipo, gli elettori intimiditi, i candidati dell’opposizione maltrattati, sequestrati, la macchina dello Stato usata per creare un risultato artificiale. Il diritto al voto negato». A uscirne vittoriosa, l’Awami League di Sheik Hasina, che si è aggiudicata un terzo mandato consecutivo e 288 seggi parlamentari su 300. Una vittoria effimera. Riflette paura, più che forza. «Sanno di non avere legittimità». Da qui il pugno duro contro ogni opposizione. «Il dissenso non è tollerato. Le istituzioni e i meccanismi di controllo non esistono più. Non c’è né una burocrazia né un ramo giudiziario indipendente. Tranne rari casi, i giornalisti sono portavoce del governo. La violenza è endemica. Ci sono sparizioni, maltrattamenti, finte sparatorie, esecuzioni extra-giudiziali. Ma quel che mi preoccupa di più è che dove non c’è spazio per una risposta democratica, la violenza rimane l’unico mezzo di chi si oppone».
La speranza è nei «veri eroi di questo Paese, i lavoratori del tessile, i lavoratori migranti, quelli del settore informale, i contadini sui campi. I giovani che protestavano allora e che continuano a farlo». Sono i protagonisti delle sue storie per immagini, ospitate al Moma di New York, alla Royal Albert Hall di Londra, a Teheran come a Kuala Lumpur. «Ho scelto la fotografia per ottenere un cambiamento sociale. Il suo valore sta in ciò che può ottenere per la gente. Le mie foto sono piccole radici per un Bangladesh diverso. Siamo un popolo che ama la libertà».