La storica giostra equestre di Siena. Narrata per “l’Espresso” da uno scrittore che svela lo stallo ?di un Paese intero. E la sua crisi infinita. Tra le nebbie che avvolgono? le inchieste sulle banche, madonne in fuga e manager milionari

Italia in Palio, nell'estate calda del caso Mps

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È un afoso pomeriggio d’agosto e sono solo a Siena, o mi sembra eroico immaginare di esserlo. Avrei dovuto accettare quel maledetto “25” in Storia e a quest’ora starei già nuotando ai piedi delle Apuane che si tuffano in mare. E invece sono ancora qua, cercando di arrivare alla fine di quel secolo che sarà anche breve ma mi mancano ancora un centinaio di pagine e l’esame è domani in Santa Maria dei Servi. Il capo mi ciondola su un libro che da quanto sonno ho pare scritto in una lingua runica.

Gli occhi si incrociano e le righe si intrecciano e se guardo verso la finestra con le persiane socchiuse, sarà il caldo o l’abbiocco, ma come in visione mi appare una madonna pratese che ho conosciuto un pomeriggio che facevo finta di studiare agli Intronati. Conoscerla è stata una dannazione e perderla una salvezza, ma questo ancora non posso saperlo. E proprio quando Hobsbawm mi sta spiegando che la Guerra Fredda gli americani non l’hanno vinta con le loro classi di sottomarini nucleari Seawolf ma con “Magnum P.I.” e i “Robinson” captati dalle parabole satellitari spuntate sui tetti oltre il muro, dalla mia finestra affacciata su via di Pantaneto sale un rombo come di temporale lontano. È un rullo di tamburi che si avvicina da Porta Pispini, rimbalza fino a via Roma: «Siamo di Finimondo Fieravecchia e Santa Chiara s’insegna e non s’impara s’insegna e non s’impaaara....».

Il Palio! M’ero completamente dimenticato che in questa sconsiderata, ultima, sessione estiva per studenti disperati e professori stakanovisti, o forse è il contrario, siamo ormai a ridosso dell’Assunta (ecco dunque spiegata anche l’apparizione della madonna). Scendo in strada, seguendo il coro abbandono i quartieri sicuri del Leocorno e mi avventuro nel territorio straniero del Nicchio fino a trovare la sorgente di quel vociare, un manipolo di contradaioli che scaldano le gole in vista della “carriera” che si correrà tra pochi giorni. Mi guardano come fossi un alieno sbarcato da un pianeta lontano anni luce, ma sono solo uno studente che ha scoperto di non essere l’ultimo uomo in città.

E in quell’incontro che ha qualcosa di selvaggio e ridicolo, un giovane capitano Cook davanti a una tribù di Maori, in quel misto di diffidenza e curiosità reciproca, c’è tutto il mio rapporto con Siena. Come qualcosa che mi riguarda ma non del tutto, una sensazione di estraneità familiare, quella che mi lega alla città. Io, provinciale nato in fondo alla provincia, in quella terra di nessuno che per secoli la Repubblica di Siena si è stancata di rivendicare, o forse solo dimenticata di avere, non abbastanza senese per sentire il richiamo del Palio ma nemmeno abbastanza straniero per viverlo con indifferenza. All’esame non ricordo se presi “30” o “30 e lode” - e non lo saprò mai perché ho perso il libretto - così come non saprei dire chi vinse quel Palio, perché appena dato l’esame fuggii via da Siena come se invece di un “30” avessi rubato il drappo e fossi inseguito da tutti i contradaioli inferociti. Quanto alla madonna pratese, ho saputo che se l’è presa un collezionista e se l’è portata al Nord.

Da quel pomeriggio d’agosto sono passati vent’anni. Manca una spicciolata di giorni al Palio dell’Assunta, sono al mercato e mentre con un filo di apprensione - che si fuga solo al rassicurante fruscio delle banconote sputate dalla bocchetta - ritiro i soldi allo sportello del Monte dei Paschi, ritorno con la mente alla mia Siena, quella città raccolta e protetta in cui ho passato gli anni più spensierati della mia vita.

Quando Siena era una città ricca e sicura e noi studenti trascinavamo i nostri piedi svagati sulla pietra serena dei suoi vicoli e al tramonto ci sdraiavamo sulle mezzane tiepide del Campo con una birra in mano una sigaretta in bocca e il cuore traboccante d’amore da non sapere a chi darne. Quando l’università era un gioiello che dispensava servizi impensabili persino negli atenei privati: agli albori della rete una postazione Internet con una casella di posta elettronica per ciascun studente, una radio universitaria trasmessa anche in streaming, la mensa di via Sallustio Bandini dove si mangiava meglio che al ristorante o quella di Sant’Agata dove si pranzava sotto le volte a vela in parte ancora affrescate e il fasto delle mostre al Santa Maria della Scala sotto il rettorato di Omar Calabrese (“Il sogno della Regione genera Mostre...”, si scherzava tra i corridoi di Lettere) e convegni e simposi nella splendida Certosa di Pontignano adibita a foresteria dell’università. E poi ancora i concerti e gli spettacoli nelle piazze e nei teatri, da Bergonzoni a Capossela, da Aldo Giovanni e Giacomo a Marcel Marceau... E la cablatura dell’ateneo e della città intera con la fibra ottica (tira più un metro di fibra...) che con una tessera magnetica e una macchinetta self permetteva di ottenere certificati e piani di studio saltando estenuanti file in segreteria...

Com’era diversa questa città vivace e digitale da quella triste e angusta, quel lazzaretto a cielo aperto pieno di tisici «dai visi gialli e incavati», come scriveva il mio amato Tozzi, che leggevo nella stessa biblioteca in cui il figlio di un oste rozzo e violento andava a puntellare la sua franosa cultura da provinciale autodidatta. Tozzi, quell’immenso scrittore con l’animo ingabbiato tra i vicoli e il cuore ricolmo di rabbia e dolcezza che camminava di notte scansando anche la luce dei lampioni! Cercavo di battere le sue stesse strade, di doppiare i suoi itinerari, mi sembrava di capirlo, mi affratellava a lui quel bruciante bisogno di amore e comprensione mai del tutto ricambiato da Siena e dai senesi. Passavo sotto l’Arco dei Rossi dov’era la sua trattoria, scendevo per via del Refe Nero, sostavo in piazza di Provenzano e guardavo la stessa campagna che guardava lui e che ancora arriva fin sotto le mura come una debole marea di orti e ulivi e in segreto promettevo a quei poggi di scrivere anch’io un giorno, per farmi rispettare da quella città superba e rancorosa con i figli che gli voltano le spalle.

Ed era diversa la mia Siena anche da quella grigia e dimessa dove si era laureato il mio babbo, senza divertimenti e senza svaghi, se non un cineforum ogni tanto in via di Calzoleria o in via dell’Abbadia, o un piatto di ravioli in una specie di distributore-trattoria in Pescaia che teneva aperto la notte, o una gita fuori porta, magari a fare il bagno nel Merse per combattere il caldo opprimente di chi era rimasto in città per l’ordalia dell’ultimo esame. Parecchio diversa da quella dove giovane medico era andato a vivere con un’altra madonna, che aveva trafugato al Nord per adorarla a Siena, prima di portarla più giù, dove finiscono le crete.

Con le sporte in mano mi faccio largo tra le bancarelle ed esco dal mercato. Ripenso a tutte queste cose e se provo a metterle in fila solo ora mi rendo conto di aver vissuto per anni in un grande campus a cielo aperto, un esclusivo college medievale in cui migliaia di studenti saliti o scesi da tutta Italia convivevano più o meno pacificamente con un silenzioso ceto impiegatizio e una rispettabile borghesia cittadina, che sotto Palio si trasformavano in turbe di contradaioli rivali pronti a scannarsi per poi ritrovarsi amichevolmente colleghi dello stesso ufficio a Palio finito. Tutto questo aveva funzionato a meraviglia, un esperimento sociale irreplicabile e non del tutto consapevole che mai nella sua storia, nemmeno sotto il leggendario Governo dei Nove, quando Siena visse il suo più fulgido splendore, aveva distribuito tanta ricchezza e benessere ai suoi cittadini. Da dove venisse tanta ricchezza era chiaro a tutti: dalla Fondazione del Monte dei Paschi che drogava la qualità della vita pompando enormi quantità di denaro nell’ateneo e nei servizi; il che essendo Siena una città già ricca di per sé la faceva diventare ricchissima, mantendendola per anni al di sopra delle sue possibilità.

Insomma, lo strepitoso affresco del Buongoverno di Ambrogio Lorenzetti (se non lo avete ancora fatto, andatelo a vedere a Palazzo Pubblico) si era inverato a distanza di sette secoli e tutti, me compreso, ne eravamo non solo testimoni, ma beneficiari, anche questo va detto.

Perché dal tetto imbarcato di una canonica all’ambulanza nuova per la Misericordia, da un progetto per le mamme con depressione post-partum al restauro di un Duccio da Buonisegna, pagava sempre Pantalone, ovverosia la Fondazione. Credo sia quasi impossibile, in questo copioso e ininterrotto fiume di denaro che per anni ha irrigato Siena e la sua provincia, riconoscere le acque chiare da quelle scure; ma chi abita o ha abitato a Siena o nei dintorni non può non aver goduto - direttamente o indirettamente - di tanta prosperità. Purtroppo il ciclo allegorico del Lorenzetti, dopo quelli virtuosi del “buono” illustrava anche gli effetti del “cattivo governo” sulla città. Dove Siena appare in rovina, frode e falsità sono davanti a ogni uscio e i senesi paiono tutti indaffarati a disfare più che a fare.

Insomma, era inevitabile che quel “groviglio armonioso”, spaventoso intreccio di poteri laici e religiosi, dissoluto incesto tra Pd, Mps, Universitas Senarum, massoneria e contrade descritto con una punta di irritante compiacimento dai senesi stessi, s’imparruccasse a tal punto da portare Siena da orgoglio provinciale a onta nazionale nel tempo di una laurea (la mia, cinque anni più uno fuoricorso). Ormai tutti sanno com’è andata, libri, giornali e inchieste televisive e giudiziarie ci hanno spiegato quel che tutti in fondo avevano sempre saputo. E avrebbe continuato a girare così per chissà quanto se il pozzo in cui pescavano i secchi da cui tutti si abbeveravano non fosse diventato così fondo da ingoiare anche la corda, e chi la reggeva.

Mentre nel parcheggio assolato cerco di ricordarmi dove ho messo la macchina e il manico delle buste di plastica mi sega le dita, penso che tra poco sarà di nuovo Palio e una volta ancora si rinnoverà questo rito antico e immutabile come la grazia e la crudeltà che sono dell’uomo. Ecco laggiù la macchina, un ultimo sforzo. Apro il baule e sorrido pensando che nel sontuoso corteo che precede la corsa, al posto delle contrade soppresse (Gallo, Leone, Orso, Quercia, Vipera e Spadaforte) mi garberebbe veder sfilare con l’elmo calato - per la vergogna e non per rispetto - i dirigenti con la terza media messi in sella dal partito che in questa giostra di bond e derivati hanno portato a questo scempio. Ma non tutto è perduto perché il Palio, sempre uguale per chi lo vive da fuori e sempre diverso per chi lo vive da dentro (e io ancora una volta né di qua né di là, preso in mezzo a una delle tante porte di Siena), rimedierà ogni danno e curerà ogni male. Quando gli zoccoli scalpiteranno nervosi sul tufo in attesa della mossa, e i cuori si lanceranno al galoppo oltre i canapi, Siena si dimenticherà di tutto. Della sua grandezza e della sua piccineria, della sua superbia e della sua grettezza, della sua miseria e della sua ricchezza. Io invece non dimenticherò, lo prometto, di quando e quanto mi ha reso felice.

Filippo Bologna è uno scrittore. ?Ha studiato a Siena e pubblicato ?il primo romanzo “Come ho perso la guerra” nel 2009 (Fandango). Nel 2016 ha vinto il David di Donatello per la sceneggiatura di “Perfetti sconosciuti”, di Paolo Genovese

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