Aarigaa! Fantastico, esclama il sindaco Mike Aamodt, anche lui in fila con la moglie eschimese per ritirare la dose comunitaria di muktuk, carne e grasso di balena. Aarigaa! Urla di rimando il capitano Ned, 51 anni, il padrone di casa, eccitato per aver ucciso con la sua squadra la prima balena della stagione, il volto turgido d’orgoglio per tutti quegli omaggi e inchini.
Arrivano famiglie in motoslitta, gli anziani entrano nella baracca con la solennità delle grandi liturgie tribali, le donne friggono in un turbinio di fumi oleosi e rancidi, gruppetti di ragazzini condividono i video sui cellulari. Compreso quello del momento in cui Ned, in piedi sulla prua della motobarca, come nelle oleografie dei vecchi romanzi marinareschi, scaglia l’arpione armato di granata sul gobbone della bowhead, la cosiddetta balena della Groenlandia.
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Ma siamo a Barrow, Alaska, neanche cinquemila anime, il villaggio più a Nord degli Stati Uniti, raggiungibile solo via aerea, punta estrema della regione del North Slope, (esteso quanto lo Utah) dove la tundra degrada dalle montagne sull’Oceano Artico. L’atmosfera è complicata da cogliere fino in fondo. Assistere a questo rito millenario degli Inupiat, concesso in deroga dal Congresso perché è forse l’unico rimasto (con la caccia alla foca, al tricheco e al caribù) ad alimentare la loro sempre più annacquata identità, mantenuto tuttavia in vita in un contesto che comprende l’uso di tecnologie sofisticate, come i sonar e Gps – perché ora capita sempre più spesso che il ghiaccio rotto della banchisa si porti via cacciatori alla deriva o che le barche vengano stritolate da blocchi spinti da venti killer mai registrati negli annali orali degli eskimo – e trovarsi comunque nell’America dell’ ambientalmente corretto, dove gli animalisti possono diventare delle belve, è un’esperienza straniante, che confonde.
«Che c’entra», taglia corto Ned. «La nostra gente ha sempre usato tecnologia avanzata, i balenieri del Massachusetts copiarono i nostri arpioni ancora due secoli fa. Con questa balena di 15 metri mangiano un migliaio di persone. Questa è l’unica nostra dieta, il nostro corpo non accetta altro… Ci hanno portato via la terra, la cultura, i miei figli non capiscono più la mia lingua, questo cibo è l’unico legame con lo spirito degli antenati e con il nostro mare violentato dai bianchi. E la balena lo sa, è lei che decide di darsi a noi… Non molleremo mai, anche se riceviamo minacce di morte da ignoranti che vivono nelle città».
Ma la piccola Barrow, appartata quassù come un’ultima Thule del continente, nasconde molte altre grandi questioni, che interessano il mondo intero. La chiamano la Ground Zero del cambiamento climatico. L’eco della campagna presidenziale non riesce a superare la barriera montuosa della Brooks Range, soprattutto perché i candidati, attenti a non infastidire quella larga fascia di americani negazionisti (il 25 per cento secondo un sondaggio del Us Geological Survay) sulle responsabilità umane del riscaldamento, snobbano questa remota Maginot dell’emergenza climatica; mentre invece a Barrow esiste una “situation room” grande come Cape Canaveral: una ex base navale degli anni Quaranta diventata il centro di ricerca interdisciplinare artica più avanzato del Paese.
«Perché qui le cose accadono in un modo più rapido e drammatico che in qualsiasi altro posto sull’Artico», dice Anne Jansen, che fa parte dell’equipe di archeologi nel compound del Barrow Arctic Research Center: «Lo scioglimento del permafrost restituisce reperti risalenti a 10, 15 mila anni fa, ho trovato nella tundra vetri veneziani del Tredicesimo secolo, probabilmente arrivati dalla Siberia attraverso lo stretto di Bering».
Anche il sindaco Mike Aamodt è archeologo, uno dei pochi bianchi ad aver girato le spalle alla propria cultura; il volto ricorda Robert Redford, parla come uno sciamano eskimo: «Le profezie Inupiat da secoli ci preparano ad un mondo che verrà messo sotto sopra dall’uomo bianco», dice. Da 23 anni è nel governo della regione: «Negli anni Ottanta mi occupavo di costruzioni, il permafrost d’estate si scioglieva di circa mezzo metro. Oggi siamo a quasi due metri. I villaggi sulla costa stanno sprofondando, abbiamo centinaia di cosiddetti profughi climatici. L’oceano si sta alzando in modo impressionante, in cinque anni sono scomparse tre isole, doctor Island, Martin Island e Igaliq Island… E l’acqua salata penetra nel permafrost uccidendo i laghi e l’ecosistema…».
Robert Suydan è un biologo, sempre collegato via radio alle squadre dei balenieri, pronto a uscire sulla banchisa per recuperare i bulbi oculari che servono per monitorare lo stato di salute delle bowhead (tipo di balene): «Ancora qualche anno fa il ghiaccio era spesso e resistente già in ottobre, si poteva uscire addirittura con i camion per chilometri, ora è affidabile solo da febbraio a marzo e il cosiddetto whale sky, quella fascia di cielo scuro che rispecchia il corridoio d’acqua aperto nel pack e che inaugura la stagione della caccia alla bowhead, è anticipato di oltre un mese. L’erosione della costa», dice mostrando carte topografiche aggiornate dalla National scientific Foundation ogni sei mesi, «tocca punte di trecento metri l’anno».
Nel Grande Gioco del Ventunesimo Secolo - la corsa all’occupazione strategica dell’Artico e alle sue enormi risorse sempre più accessibili con lo scioglimento dei ghiacci (il 30 per cento delle riserve mondiali di combustibile fossile) - Barrow è l’avamposto americano, il simbolo di quella svolta geopolitica celebrata dalla visita di Barack Obama, la prima di un presidente Usa oltre il Circolo Polare artico. Barrow si trova sul passaggio a Nord Ovest, l’”autostrada” marittima che accorcia (cosi come la rotta transpolare di Nord-Est) quasi della metà il tragitto Asia-Occidente e che è destinata a rivoluzionare il traffico mercantile internazionale, quindi il motore della globalizzazione, perché il 90 per cento del trasporto merci nel mondo avviene con i grandi bulck portacontainer, per lo più cinesi e coreani: e la porta obbligata per entrambe le rotte è lo Stretto di Bering, che i Chukchi chiamavano la “cruna dell’ago” e la “porta dell’abbondanza”: una delle regioni più sensibili al mondo, con una presenza di intelligence “maggiore che in Medio Oriente” ci dice il sindaco di Anchorage, Ethan Berkowitz.
All’hotel “On the top of the World”, l’unico a Barrow confermano che la presenza di militari è aumentata negli ultimi due anni, di pari passo con lo sconfinamento dei caccia russi che non esitano a farsi vedere a bassa quota. Un mondo nuovo si apre, che ricorda la Gold Rush del Klondike, sempre in Alaska, ma un secolo fa. La Polar Rush attira avventurieri e pionieri 2.0. Spesso incoscienti, come quelli che accelerano nel business delle crociere «con navi adatte per i Caraibi» dice Vernon Rexford, intagliatore di zanne di tricheco (anche questo permesso ai soli Iniupiat): «Paradossalmente l’Oceano è più pericoloso di prima… mi aspetto catastrofi, anche perché non esistono centri di soccorso adeguati. In quattro minuti in quest’acqua sei morto».
Ad agosto Barrow è una delle tappe della Cryslal Serenity, la prima meganave da crociera a compiere il Passaggio a Nord-Ovest, da Seward, Alaska, attraverso lo Stretto, costeggiando fino al Canada per arrivare a New York, quasi duemila persone a bordo: il “Guardian” l’ha definita una sfida titanica, nel senso degna del Titanic.
Se la Shell ha sbaraccato dalle coste di Barrow un anno fa («ma stanno pianificando il rientro», assicura il sindaco), la Halliburton, la ConocoPhilips, l’Eni e altri colossi del greggio aspettano solo un rialzo del prezzo al barile di venti dollari e cominceranno a operare su nuovi giacimenti, perché il 23 per cento del petrolio e del gas artici si trovano davanti a queste acque. Ma intanto il governo dell’Alaska, il cui budget dipende al 90 per cento da tasse e royalties sui pozzi (secondo Stato estrattore dopo il Texas) con il crollo del settore sta per dichiarare bancarotta, chiudono scuole, ospedali, distretti di polizia soprattutto nelle aree remote: «Mentre il resto del mondo si riprende dalla crisi del 2008, l’Alaska vi entra in modo drammatico», dice Pat Davsan, prima eskimo a laurearsi ad Harvard, figura chiave nel board della Arctic Slope Regional Corporation, praticamente un fondo d’investimento degli Inupiat che gestisce oltre cinque miliardi di dollari: «Abbiamo imparato la lezione da quel che è successo agli indiani d’America, quando è nato lo Stato dell’Alaska nel 1958, ed erano gli anni delle lotte per i diritti civili, siamo riusciti a introdurre nella Costituzione l’obbligo di tassazione sulla terra occupata nella nostra regione, e una percentuale sulle risorse estratte, abbiamo costituito varie corporation, quotate a Wall Street…».
Cosí che oggi gli unici a salvarsi dalla crisi sono gli Iniupiat, che costruiscono nuove biblioteche, scuole e distribuiscono dividendi alla tribù, anche fino a diecimila dollari al mese. «L’unico modo per finanziare l’identità», dice Pat, «ogni battuta alla balena costa quasi ventimila dollari».