La rabbia (e la vittoria) dei parenti contro la cerimonia a Rieti. Il prevalere delle celebrazioni private. Il basso profilo delle istituzioni e dei suoi rappresentanti. Le esequie di Stato per le vittime del sisma raccontano molto dell’Italia di oggi

Rammendare, “ricucire senza distruggere” con “cantieri leggeri”. Una “operazione sottile”, paziente, sottotraccia, senza imposizioni calate dall’alto. La filosofia con cui Renzo Piano ha indicato la via della ricostruzione post-sisma ricorda molto quella prevalsa nell’organizzazione dei funerali di Stato per le vittime. Forse perché a essere terremotati e lacerati non sono solo i luoghi colpiti, ma anche (e non da ora) i sentimenti di un Paese sfiduciato, che ha smesso di crederci da un pezzo. Nessun rito rappresenta tanto plasticamente il modo in cui le istituzioni si mostrano e anche adesso, come sempre accaduto, le esequie finiscono per essere lo specchio del Paese.

«Nelle commemorazioni pubbliche, la memoria e l’identità collettiva sono produzioni culturali di un gruppo che le porta in scena e le celebra, e dunque soggette a continue trasformazioni e cambiamenti di senso» ha scritto Livio Karrer, storico del Museo del Novecento di Venezia, nel suo “I funerali della Repubblica. Riti funebri ed identità nazionale”, che ricostruisce le principali esequie di Stato e la loro funzione nella vita pubblica. Ed eccolo, lo spirito dell’Italia di oggi che trasuda dalle macerie fumanti di Amatrice, Accumoli e Arquata del Tronto. Il basso profilo. Il prevalere delle cerimonie private. Un numero esiguo di feretri rispetto al totale delle vittime (appena 38 su 243 nel Lazio), a marcare concretamente le distanze dal rito ufficiale. E ancora: la rabbia dei congiunti contro il luogo prescelto, l’aeroporto di Rieti, deciso dalla Prefettura. La retromarcia delle istituzioni.

Un passo indietro simbolico, quello compiuto ad Amatrice, con la decisione finale di acconsentire alle richieste dei familiari. Un passo indietro che è stato anche letterale ad Ascoli, coi parenti accanto ai feretri e le più alte cariche dello Stato molto più indietro. Quasi a voler colmare, proprio attraverso quella deferente distanza, la faglia che separa le istituzioni dal Paese reale. E come ha mostrato di saper fare, con discrezione e pudore, il presidente della Repubblica Sergio Mattarella, che nel capoluogo marchigiano ha dato prova di quanto l’umanità e la vicinanza non passi necessariamente dalle promesse altisonanti e dalle frasi di circostanza.

Un modello lontano anni luce da quello invalso fino a pochi anni fa. Specialmente rispetto a quello andato in scena all’Aquila prima, durante e dopo le esequie di Stato celebrate per le vittime del terremoto: la sfilata di bare al centro dell'enorme piazzale della caserma della Guardia di Finanza di Coppito, la stessa che pochi mesi dopo avrebbe ospitato il G8; la lontananza fisica di tutti gli astanti, parenti compresi; le esibizioni di Berlusconi, che si improvvisa centralinista nella Sala operativa, promette di ospitare gli sfollati nelle sue case, gira le tendopoli regalando dentiere agli sfollati. La ricostruzione trasformata in uno show, con la strabordante Protezione civile di Guido Bertolaso che diventa una “macchina da guerra” e le new town che allontanano la gente da dove ha vissuto per non riportarcele mai più: l’esatto opposto di quel che si vorrebbe fare oggi.

Un’orgia del potere non solo metaforica (era la stagione delle “vergini che si offrono al drago”) che non ha risparmiato nemmeno le esequie di Stato. Come quelli, appena un anno dopo, degli alpini Massimiliano Ramadù e Luigi Pascazio, uccisi in un attentato a Herat. Col sagrato della basilica di Santa Maria degli Angeli oggetto nell’occasione di un’autentica invasione di auto blu: in piazza della Repubblica l’Espresso ne contò 259. Altri tempi. Quanto mai lontani dai funerali “schivi” e dall’età del rammendo di oggi.

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