Uccisioni di massa, arresti arbitrari, espropri forzati. Il Paese subsahariano è a un passo dalla guerra civile. La comunità etiope chiede all'Italia di fermare il governo di Addis Abeba

Almeno 90 morti, centinaia di feriti, altrettanti arresti. È il bilancio dell'ultima azione repressiva del governo etiope contro gli oppositori delle regioni di Oromia e di Amhara. Un fine settimana di sangue culminato nel massacro del 7 agosto a Bahir Dar, dove le forze di sicurezza hanno sparato sulla folla uccidendo 30 manifestanti. Chi non è rimasto a terra, è stato rinchiuso in centri di detenzione clandestini.
Il rispetto dei diritti umani in Etiopia non esiste. Il mondo lo ha saputo il 21 agosto grazie a Feyisa Lilesa, medaglia d'argento alla maratona di Rio 2016. Ha tagliato il traguardo incrociando i polsi sopra la testa per simboleggiare le manette. «La mia famiglia è in prigione e se si parla di diritti si viene uccisi – ha detto ai giornalisti dopo la finale –. Se torno in Etiopia, forse mi uccideranno. Se non mi uccideranno, mi metteranno in prigione».
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Lilesa ha chiesto asilo politico negli Stati Uniti, ma il suo gesto è diventato un simbolo per il popolo degli oromo: circa 30 milioni di abitanti, il più nutrito gruppo etnico del Paese. Le loro manifestazioni pacifiche vanno avanti dal novembre dello scorso anno, quando il governo di Addis Abeba avanzò l’Integrated Development Master Plan, un piano che prevedeva l’espansione urbana della capitale con la creazione di una zona industriale e l’esproprio dei terreni agricoli nella regione di Oromia. Il piano fu accantonato, ma le proteste sono continuate per chiedere riforme politiche e la liberazione dei detenuti politici.
Il malcontento degli oromo, vittime di violenze e genocidi dalla fine del XIX secolo, si è diffuso in tutto il Paese, e anche nella regione di Amhara gli oppositori del governo sono scesi in piazza per denunciare l'arresto per presunti reati di terrorismo del colonnello Demeka Zewdu, uno dei leader del Comitato per l'identità e l'autodeterminazione del Wolqait. Secondo Human Rights Watch, tra il novembre del 2015 e lo scorso maggio si contano più di 400 morti e decine di migliaia di arresti. Anche Amnesty International monitora la situazione, ma gli ultimi segnali non inducono all'ottimismo: il governo ha respinto la richiesta delle Nazioni Unite per l'invio di propri osservatori nel Paese. «Non c'è bisogno di nuove presenze straniere dal momento che l'Onu ha un cospicuo numero di caschi blu in Etiopia», ha comunicato Addis Abeba.
La situazione è tesissima, per questo la comunità etiope italiana (8mila residenti) ha deciso di manifestare. Così si è recata fino a piazza Montecitorio. Per gridarlo forte alla nostra politica, che questo massacro è inaccettabile. La protesta è sentita nella Capitale, basti pensare che tra i migranti di via Cupa, assistiti dai volontari del Baobab, quasi uno su cinque è etiope. A Montecitorio i manifestanti hanno consegnato una lettera al presidente della Commissione affari esteri e comunitari, Arturo Scotto. Per sollecitare un intervento, o anche solo una presa di posizione. Che ancora non è arrivata da parte del governo.