Per un ministro dell’Economia mostrare ottimismo è quasi un dovere. Non deve così stupire che Pier Carlo Padoan, nella sua ultima apparizione in pubblico del 2016, a un forum organizzato dal Sole 24 Ore, abbia mostrato di nutrire ancora la fiducia che ha sempre cercato di diffondere attorno a sé da quando è diventato ministro, quasi tre anni fa. Il debito pubblico? «Nel 2017 la sua gestione continuerà a produrre risultati positivi», ha detto. Le critiche dell’Europa sui conti? «Ci sono i presupposti perché l’Italia finisca di essere indicata come un problema». La molla di questa riscossa? «Ci attende un anno con più crescita trainata dai fondamentali» .
Al di là dei doveri connessi al ruolo che ricopre, dietro la tranquillità esibita da Padoan sull’anno appena iniziato c’è forse l’idea che, nei prossimi mesi, l’Europa non vorrà affondare il colpo sull’andamento delle finanze tricolori, come invece potrebbe fare. Basta infatti leggere le sei pagine firmate il 5 dicembre scorso da Jeroen Dijsselbloem, il politico olandese che presiede l’Eurogruppo, per percepire toni in totale contrasto con quelli fiduciosi usati da Padoan. L’Italia, è il succo del documento, invece di ridurre il disavanzo strutturale fra le entrate e le spese come aveva promesso, con il bilancio per il 2017 ha peggiorato le cose, al punto che a breve si potrebbero rendere necessarie «significative misure addizionali di finanza pubblica», dice la lettera dell’organo che ha il compito di coordinare le politiche economiche dei Paesi dell’euro. E ancora, l’Eurogruppo ha voluto ricordare al governo di Roma «l’impegno a usare interventi una tantum» e a «intensificare le privatizzazioni» per ridurre il debito pubblico. Parole molto dure, che lasciano spazio all’ipotesi che Bruxelles chieda al nuovo premier Paolo Gentiloni nuove tasse straordinarie.
Tra il “va tutto bene” di Padoan e il “rimettetevi in riga” di Dijsselbloem, per capire che cosa ci attende nei prossimi mesi bisogna tornare a uno dei punti chiave della legge di bilancio 2017, ultimo atto del governo di Matteo Renzi prima delle dimissioni. Gran parte della manovra è servita a scongiurare l’aumento dell’imposta sui consumi, l’Iva, che negli anni passati i vari governi avevano prefigurato per ottenere dalla Commissione europea il via libera alle leggi finanziarie presentate, sempre alla luce degli impegni presi con il Patto di stabilità. Il primo a mettere nero su bianco questi incrementi futuri delle imposte era stato nel 2011 Silvio Berlusconi, che aveva inaugurato le cosiddette “clausole di salvaguardia”, ovvero degli impegni a aumentare le tasse per ridurre il disavanzo nei conti. Da allora i governi che sono seguiti hanno lavorato per disinnescare gli aumenti dell’anno successivo, rinviandoli al futuro. L’ultimo e più massiccio utilizzo di queste clausole è stato fatto qualche settimana fa, quando il governo Renzi ha impegnato gran parte delle risorse della legge di bilancio per il 2017 al fine di evitare un immediato incremento dell’Iva pari a 15,1 miliardi. Al tempo stesso, però, per far quadrare i conti degli anni successivi ha predisposto un aumento da 19,2 miliardi per il 2018 e un’ulteriore aggiunta da 3,6 miliardi dodici mesi più tardi.

EFFETTI SUL GETTITO FISCALE
NEL BILANCIO PUBBLICO
Legge di bilancio per il 2017:
disattivazione degli incrementi Iva
previsti dalle leggi precedenti
Mancato aumento aliquota dal 10 al 13%
Mancato aumento aliquota dal 22 al 24%
Clausole di salvaguardia attive
dopo la legge di bilancio per il 2017
Incremento aliquota Iva dal 10 al 13%
Incremento aliquota Iva dal 22 al 25%
Incremento aliquota Iva dal 10 al 13%
Incremento aliquota Iva dal 25 al 25,9%
Paolo Guerrieri, un professore di Economia della Sapienza di Roma che nel 2013 è stato eletto in Senato per il Pd, descrive queste clausole come una specie di “pagherò”: «Sono garanzie che sono servite per rassicurare l’Europa sull’esistenza delle coperture per le spese previste. Garanzie un po’ speciali, però, perché mentre il governo spiegava a Bruxelles che i conti futuri torneranno grazie agli aumenti dell’Iva, agli elettori ha sempre detto di non preoccuparsi, perché l’anno successivo avrebbe trovato un modo per evitarli». Da quando Berlusconi ha introdotto le clausole di garanzia, nel 2011, l’escamotage ha in effetti funzionato, e tutti, da Mario Monti a Enrico Letta a Renzi, sono riusciti a evitare un salasso che viene considerato economicamente negativo, oltre che impopolare. Guerrieri, però, pone l’attenzione su un fatto decisivo: i continui rinvii, e l’ultimo in particolare, hanno eroso i futuri spazi di flessibilità per attuare politiche di bilancio che non siano dettate semplicemente dall’emergenza. Il motivo si intuisce guardando la tabella della pagina qui a fianco, dove si può notare come già per il 2017 gli obiettivi di deficit e debito che l’Italia si è data divergono rispetto agli impegni del Patto di stabilità. Figuriamoci cosa accadrà nel 2018, se l’aumento dell’Iva verrà di nuovo eluso.
Perché allora la fiducia espressa da Padoan? Il motivo sta nella contingenza del momento, che vede una serie di scadenze elettorali, dalla Francia alla Germania, che rischiano di compromettere la sopravvivenza stessa dell’Unione europea. «Non ho dubbi: se la Commissione europea avesse agito come faceva una volta, avrebbe già avviato la procedura di deficit eccessivo nei confronti dell’Italia. Da qualche tempo, però, Bruxelles sta utilizzando maggiori margini di discrezionalità politica, e questo potrebbe pesare quando in primavera si faranno i conti definitivi sulla legge di bilancio», spiega Guerrieri.
Com’è noto, uno dei punti di confronto riguarda le spese per i terremoti e i profughi. Spese eccezionali, che non dipendono dalla volontà del governo di Roma, secondo il quale deve essere fatta valere la flessibilità garantita dai trattati. La Commissione guidata da Jean Claude Juncker non contesta tanto il merito di questa posizione, quanto la misura degli sforamenti che l’Italia vuol far passare. Qui si giocherà la trattativa con Bruxelles, per decidere quanto, a inizio primavera, il governo Gentiloni dovrà correggere i conti. Se bastasse il piccolo intervento che Padoan mostra di prevedere, riducendo dello 0,1 per cento il disavanzo, si potrebbe fare senza traumi. Se invece prevalessero i toni duri esibiti da Dijsselbloem, la manovra dovrebbe essere ben più massiccia. E potrebbe arrivare la richiesta di anticipare già quest’anno parte degli aumenti dell’Iva già previsti per il 2018, mettendo in atto le «misure addizionali di finanza pubblica» citate nella lettera del 5 dicembre.
La prospettiva, nel governo e nel Pd, non fa dormire sonni tranquilli. Il primo motivo è politico: alzare le tasse con le elezioni alle porte rischia di trasformarsi in un’operazione suicida. Il secondo motivo è economico. Spiega Guerrieri: «Da economista, devo osservare che l’aumento dell’Iva rischierebbe di soffocare una crescita già modesta e farci tornare nella stagnazione. Da politico, invece, vorrei finalmente affrontare un piano che ci permetta di non preoccuparci soltanto di quello che accadrà l’anno dopo, ma di dare il via a quei cambiamenti che ci servono per tornare a guardare con fiducia il futuro».
Andrea Terzi, professore di economia alla Franklin University di Lugano e alla Cattolica di Milano, autore del saggio “Salviamo l’Europa dall’austerità” (Edizioni Vita e Pensiero), dice di non avere dubbi: «L’aumento dell’Iva avrebbe l’effetto di deprimere la domanda e aumentare i prezzi al consumo». Se poi a essere alzate fossero le aliquote sui prodotti di più largo consumo, l’Iva mostrerebbe la sua natura più regressiva, ovvero più penalizzante dal punto di vista sociale: «A essere colpiti, infatti, sarebbero proporzionalmente i redditi medio-bassi».
Va detto che non affrontare adesso il problema finirebbe solo per rinviarlo di qualche mese, lasciandolo sul groppone al futuro esecutivo, se ci saranno le elezioni anticipate, o a un governo Gentiloni comunque al crepuscolo. Ecco perché, della tagliola dell’Iva , prima o poi qualcuno dovrà occuparsi.
L’impegno incrocerebbe un altro momento che rischia di produrre pesanti effetti: a fine 2017, infatti, termineranno gli acquisti di titoli di Stato che la Banca centrale europea di Mario Draghi fa con il “quantitative easing”. Dal prossimo anno, di conseguenza, il Tesoro si troverà probabilmente a dover pagare interessi più alti su Bot e Btp. «L’Italia si ritroverebbe in una congiuntura parecchio sfavorevole, in cui sia la politica fiscale che quella monetaria remerebbero contro la ripresa, una situazione mai sperimentata nemmeno sotto le forche caudine dell’austerity del governo Monti, dato che nel 2012 la Bce perseguiva almeno una politica monetaria espansiva», ha scritto sul sito “Gli Stati Generali” l’economista Marcello Minenna, l’ex assessore al bilancio della giunta romana di Virginia Raggi che insegna matematica finanziaria alla London School of Economics.
Crescita debole, austerità, tassi d’interesse in aumento: lo scenario che emerge mettendo insieme i tre fattori è così preoccupante che, a detta di molti, sono necessari interventi profondi. Il professor Terzi pensa che una soluzione passi solo da una diversa applicazione delle regole di bilancio in Europa. «Da tempo», dice, «il processo di armonizzazione ha mostrato i suoi limiti. L’armonizzazione non basta a far convergere le economie, e ha imposto crescenti vincoli che hanno rallentato la crescita complessiva». In un recente lavoro, l’economista della Franklin University ha confrontato l’andamento dell’economia di Italia e Germania dalla nascita dell’euro, evidenziando come si siano mosse di pari passo fino al 2006. «Ci dimentichiamo spesso che cercare una spiegazione tutta italiana alla bassa crescita è fuorviante. L’Italia è una regione dell’Eurozona, e i nostri destini dipendono in primo luogo dalla performance europea», spiega. Il divario fra le due economie è emerso soltanto nel 2007 e si è dilatato con l’austerità, un fatto che non dovrebbe stupire: «Quando un’economia nel suo insieme rallenta, i divari interni crescono. Dunque, la soluzione comincia da una politica europea della domanda e della crescita».
In sette anni, dal 2008 al 2015, il Pil dell’Eurozona è cresciuto complessivamente del 2,5 per cento, a una media annuale di poco sopra allo zero. L’Italia, certo, si è mostrata più vulnerabile della Germania «ma se fermiamo il nostro naso all’obiettivo di guadagnare un po’ di competitività rispetto al sistema tedesco perdiamo di vista il quadro d’insieme. Se qualche impresa italiana riuscisse a portare via un po’ di export a qualche impresa tedesca, avremmo soltanto redistribuito – e non creato - ricchezza», spiega Terzi. Per lui, dunque, la soluzione è mettere in piedi una vera politica coordinata: «L’economia europea oggi può davvero creare lavoro e crescita solo allentando i vincoli al disavanzo».