L’onda populista è però tutto meno che un fulmine a ciel sereno. Sta maturando un processo in moto da tempo, cui hanno contribuito forze che oggi si stracciano le vesti davanti al populismo montante
L’elezione di Donald Trump alla presidenza Usa, insieme alla Brexit e alla crescita di movimenti populisti in tutte ?le democrazie occidentali, è stata letta come un segnale di crisi democratica. ?Il problema qui non sta nell’orientamento politico di questo o quel movimento - gradito ad alcuni e avversato da altri com’è giusto in una democrazia. Al di là della collocazione politica, il problema è nella natura virulentemente demagogica di queste forze, dove argomenti e analisi hanno lasciato il terreno ad una gara a contendersi la “pancia” dell’elettorato. Ciò che accomuna queste forze non è un contenuto, ma uno stile. Consiste nel far balenare l’esistenza di soluzioni semplici a problemi complessi, tratteggiate con frasi tranchant, parabole edificanti e blandizie rivolte alla “gente”.
Il tutto alimentato da stilemi popolari che vanno dalla battuta all’uso del “politicamente scorretto”, per accreditarsi come “parte del popolo”. Che persino a un noto multimiliardario conservatore come Trump sia riuscito il giochino dell’ accreditamento presso il popolo segnala un processo storico giunto a una sua preoccupante maturazione.
L’onda populista è però tutto meno che un fulmine a ciel sereno. Sta maturando un processo in moto da tempo, cui hanno contribuito forze che oggi si stracciano le vesti davanti al populismo montante. Molte di queste forze sono state superate in quello stesso gioco da chi era disposto a perseguirlo in modo più spregiudicato. Nel nome della ricerca di una doverosa “sintonia con il popolo”, tutte le forze politiche hanno alimentato un dibattito pubblico a colpi di slogan, attacchi personali, battute ad effetto, sotterfugi dialettici, distorsioni retoriche, semplificazioni. Chi non ha accondisceso a questi stilemi ha perso in questa competizione verso il basso.
Ora, l’interrogativo, angosciante ma indifferibile, è se questo processo non segnali un problema strutturale del meccanismo democratico in quanto tale. Dopo tutto, anche se alcuni paesi hanno pensato persino di “esportare la democrazia” - confidando nelle arti persuasive dei mortai - la democrazia del suffragio universale è un esperimento storico piuttosto recente, nonché ampiamente minoritario nella storia umana.
Ora, il meccanismo che sembra essersi instaurato nelle democrazie occidentali da una quarantina d’anni almeno, può essere descritto come una competizione al massimo ribasso, dove la necessaria ricerca dell’approvazione della maggioranza è divenuta in modo crescente ricerca del plauso e della persuasione purchessia. Questo meccanismo ha trovato amplificazione ?in tre fenomeni distinti: l’imporsi della cultura dell’immagine (dall’avvento della televisione in poi), la crescita della complessità reale del mondo moderno, ?e infine, il paradossale decremento delle competenze formative nella popolazione in generale. Sull’avvento della cultura televisiva, con la tendenza a uccidere i tempi di riflessione, è stato già detto tutto. Meno ovvio è l’effetto combinato degli altri due elementi. In primo luogo, la crescita delle comunicazioni e della globalizzazione economica ha reso il mondo molto più complicato di come poteva apparire nel 1920 o nel 1945. Effetti indiretti, preterintenzionali, e originati a distanza sono la norma, non l’eccezione, nel mondo contemporaneo. Per dire, remote decisioni nella deregolamentazione del settore finanziario americano stanno all’origine della crisi dei mutui subprime, che ha poi travolto, come un cataclisma naturale, decine di milioni di ignare famiglie europee. Oggi percepire un problema come problema raramente implica avere idea di cosa si possa fare per risolverlo. In secondo luogo, questo incremento di complessità, è stato affrontato dagli Stati democratici con un’attenzione decrescente alla formazione della cittadinanza (cioè alla capacità di giudizio di chi detiene la sovranità). Nel migliore dei casi ci si è concentrati sull’acquisizione di “basic skills” spendibili sul mercato. Come noto, l’analfabetismo funzionale è divenuto un problema serio ?in molti paesi occidentali - Italia in testa, con il suo orgoglioso primato del 41% di popolazione in condizioni di minorità cognitiva. Ma anche dove non ci si trovi ?di fronte a forme conclamate di incapacitazione culturale, la formazione necessaria a seguire discorsi anche modestamente astratti è tendenzialmente bassa e decrescente. Sotto queste premesse nell’agone politico le battaglie ?si sono combattute mirando al minimo comune denominatore, a ciò che “tutti possono capire”, incentivando così ?la proliferazione di leoni da talk show, candidati fotogenici, spot pubblicitari ?e tutto il costoso strumentario del marketing elettorale. Questa tendenza ?è da tempo sotto gli occhi di tutti.
E a chi ha provato a mettere in guardia contro di essa, il ceto politico occidentale ha imparato a rispondere secondo un canone accreditato, uno schema dove spontaneismo sessantottardo, lasciafarismo liberista e anti-intellettualismo ecclesiastico si sono trovati d’accordo. ?Il canone è consistito nel tacciare di “paternalismo” chi richiamava la necessità di “educare il popolo”; poi nel santificare l’istintiva “saggezza del popolo”, che “magari-non-saprà-esprimersi-ma-sa-cosa-vuole”; e infine nel proclamare d’ufficio l’avvedutezza dell’elettore, che, come il cliente, per definizione ha sempre ragione.
Questa spazzatura demagogica, che accomuna culture altrimenti molto diverse come quella nordamericana e quella mediterranea, è stata ripetuta infinite volte, fino a diventare senso comune. Purtroppo, però, non esiste alcun miracolo che traduca la competenza nelle relazioni quotidiane in competenza nella valutazione di processi complessi. E constatarlo non è elitismo, ?ma puro e semplice realismo. Non è qui ?lo spazio per proporre soluzioni, anche se curarsi della formazione ed informazione, qualificata e permanente, del “popolo” dovrebbe essere un’ovvia priorità per qualunque democrazia che voglia dirsi tale. Quali che siano le soluzioni percorribili, l’unica cosa che non si può fare è continuare a raccontarci fiabe consolatorie.
Le democrazie hanno un problema, e non ?è un problema contingente. Se si vuole prendere sul serio l’idea dell’autogoverno del popolo, bisogna abbandonare finzioni hollywoodiane sull’intelligenza emozionale ?e la “saggezza del cuore”. Il buon senso che poteva funzionare in tribù e villaggi ?non funziona più in società aperte transnazionali. Chi ha a cuore la democrazia deve guardare il problema in faccia. L’alternativa è lasciarla in mano a proprietari di tabloid, a miliardari o istrioni. Occasionalmente a tutte queste cose assieme.