Il MIT (movimento identità transessuale) è l'associazione che per prima in Europa ha aperto al suo interno un consultorio per la salute delle persone trans, composto da un’equipe di psicoterapeuti ed endocrinologi. Nella sua sala d’attesa si incrociano racconti, difficoltà e speranze di chi percorre chilometri per cambiare sesso

Quando è arrivato qui in treno la prima volta, sei anni fa, pesava quindici chili in meno. «Quello che ancora oggi mi uccide è la paura che qualcuno possa capire, anche solo da un dettaglio». Poi toglie la mano dalla tasca dei jeans e la appoggia sul collo. Non ha il pomo d’Adamo. Federico è un ragazzo transessuale di 38 anni, ha gli occhi chiarissimi e una barba folta e con la schiena appoggiata alla parete aspetta il suo turno, come tutti. Accanto a lui, seduti su un divanetto rosso, ci sono una mamma che ha accompagnato la figlia, un uomo sulla quarantina, una ragazza di trenta e una coppia.

Uomini e donne di tutte le età che fanno parte del popolo in transito, persone che non si riconoscono nel sesso biologico e arrivano al Mit (movimento identità transessuale) di Bologna per nascere una seconda volta. L’associazione, che da oltre vent’anni si batte per difendere i diritti delle persone transessuali e transgender, è stata la prima in Europa ad aprire un consultorio in accordo con il servizio sanitario locale e la Regione e quindi composto da psicoterapeuti ed endocrinologi e in regola con gli standard internazionali. «La differenza la fa il contesto, che è fondamentale in un percorso di transizione», spiega la presidente onoraria Porpora Marcasciano.
ojhkljnlkjh-jpg

Il consultorio assiste nel percorso 980 utenti che arrivano da ogni città d’Italia. «Il momento più difficile è stato quando ho chiamato la prima volta», spiega Roberto, che arriva da San Benedetto del Tronto. «Avevo paura della reazione del mio corpo agli ormoni, di provare dolore». Dall’altra parte del filo c’è Mary, che si occupa dell’accoglienza e del counseling. «Li ascolto e spiego loro che il primo passo è un eventuale percorso psicologico».
[[ge:espresso:foto:1.294048:mediagallery:https://espresso.repubblica.it/foto/2017/01/23/galleria/mit-movimento-identita-transessuale-di-bologna-1.294048]]
Tecnicamente ciò che viene accertato è il Dig (disturbo dell’identità di genere) poi rinominato disforia di genere nel D.S.M V (manuale diagnostico e statistico dei disturbi mentali) e non più considerato quindi un disturbo mentale. «In parallelo viene affiancata la somministrazione di ormoni del sesso opposto, testosterone o estrogeni, che continua per tutta la vita», spiega Daniela Anna Nadalin, psicologa, psicoterapeuta e coordinatrice dell’attività consultoriale. La terapia ormonale è parzialmente irreversibile. «Per questo è importante che il paziente sia deciso», fa presente Maria Cristina Meriggiola, ginecologa ed endocrinologa. «Ci sono stati anche casi di persone che si sono volute fermare. Poche, ma ci sono state».

Cambia la voce, si induriscono o addolciscono i lineamenti, compare o diminuisce la peluria, il grasso si sposta dai fianchi all’addome o viceversa, la forza aumenta o diminuisce. Ciò che non varia invece è la struttura ossea. Nessuna magia però. Roberto abbassa gli occhi. «Gli effetti fisici sono lenti e graduali, poi ci sono anche quelli psicologici». Sbalzi d’umore, depressione o ansia. «Li aiutiamo a non spaventarsi e a gestirli», fa presente Nadalin. Servono in media due anni per ottenere l’effetto massimo di mascolinizzazione o femminilizzazione e si deve tenere conto anche delle possibili complicanze delle terapie: trombo embolico e aumento del rischio cardiovascolare. Ma, sotto controllo medico, rimangono comunque molto rare.

Alessandro arriva da Trento e ha trovato la forza di iniziare il percorso solo pochi mesi fa, dopo la morte della madre, mentre Alessandro di Cattolica non si è mai sentito un trans. «È solo un nome che identifica una situazione che nessuno di noi ha scelto». Ha le cuffie alle orecchie e una camicia di jeans arrotolata sugli avambracci tatuati. «Vedi questo», dice, «rappresenta la molecola del testosterone»

Angelo invece è di casa. Viene qui dal 2011 e dopo tre anni ha fatto due interventi chirurgici in una sola volta. Una rinascita, che però è arrivata dopo il baratro. Una sera ha aperto l’armadietto dei medicinali ha ingoiato fino a trenta pillole, mescolate all’alcool. Poi si è sdraiato sul terrazzo e ha perso i sensi. Oggi però qualcosa sta cambiando. «Se la persona è supportata, il rischio di suicidio è pari a quello della popolazione generale» fa presente Nadalin. È seduto accanto ad Andrea. La sua famiglia l’ha buttato fuori casa e l’unica ad accoglierlo è stata la sua nonna. «Era lei a dire a tutti di chiamarmi Andrea», racconta. Oggi vive a Bologna per amore di Veronica, una ragazza MtoF (male to female) e dopo quattro anni ha riallacciato i rapporti con il padre: «Ho alzato la cornetta e l’ho chiamato».

Il Mit, presieduto oggi da Nicole De Leo, ha ottenuto anche il riconoscimento di Amnesty International Italia per la difesa dei diritti umani. Non è solo un consultorio, ma anche uno sportello legale, un  centro di documentazione, fa accoglienza per  emergenza abitativa, svolge assistenza in carcere, interviene nella riduzione del danno sulla prostituzione e organizza eventi. Nel 2016 Bologna ha ospitato anche il Sesto Consiglio Europeo Transgender (Tgeu), diventando per un biennio la Capitale Trans d’Europa.

Parte del lavoro, è culturale. «C’è un problema di immaginario, la trans è vista come una prostituta, mentre noi lavoriamo per nuovi modelli in cui una trans può essere anche medico o avvocato».

Mario ha 30 anni e fa il volontario in associazione. Ha le unghie laccate, indossa una maglietta larga e grandi occhiali da sole. Poi li solleva: «Sono la più truccata di tutte», dice. Mario non si definisce. «Potrei dire transgender o trans, che significa movimento». Al collo porta un ciondolo con una sirena, non solo perché è napoletano ma anche perché «è il simbolo di una creatura ibrida».

Nella sala a fianco c’è Aura. Arriva da un piccolo paesino della Sardegna e lavora al Mit. Il percorso l’ha fatto da sola. «Ci facevamo le punture tra amiche», racconta. Mano a mano che il corpo iniziava a cambiare spediva lettere e fotografie alla sua famiglia. «Mio padre non mi ha mai risposto, così un giorno sono tornata a casa e dopo un primo momento di smarrimento mi ha abbracciata forte». È stato lui poi a volare con lei in Thailandia per sostenerla durante l’intervento. Ha una famiglia solida e affettuosa, che le ha fatto da scudo. A Bologna invece il Mit le ha dato la voglia di ricominciare. «È grazie a loro se ho ripreso gli studi».