Attualità
19 agosto, 2025L'ex terrorista Fioravanti all'ultimo processo sulla strage di Bologna ha insinuato che il giudice eroe lo avrebbe perseguitato per motivi politici. Il verdetto: è una menzogna, ma va considerata «irrilevante»
Calunniare Giovanni Falcone non è reato. Nei procedimenti sulle stragi nere è più facile del solito trovare verdetti formalmente ineccepibili, ma lontanissimi dal senso comune, per cui rischiano di minare la fiducia nei giudici e favorire i nemici della giustizia: in Italia un condannato per terrorismo e per decine di omicidi, chiamato a testimoniare davanti a una corte con l'obbligo di dire tutta la verità, può vedersi riconoscere la licenza non solo di tacere, ma anche di mentire e perfino di screditare con accuse false un giudice eroe nazionale, che non può replicare perché è morto ammazzato in una strage di mafia.
La decisione al centro del caso fa parte di un mazzo di proscioglimenti di cui si è parlato a Bologna il 2 agosto scorso, nella giornata in memoria delle 85 vittime dell'attentato alla stazione. Oggi tutte le sentenze dimostrano che fu una strage fascista e piduista, come documentano le condanne definitive di cinque terroristi di destra, come esecutori, nonché dei vertici dei servizi segreti dell'epoca, per una serie di depistaggi orchestrati da Licio Gelli, il capo della P2. Gli ultimi processi sono stati avviati dalla Procura generale con nuove prove raccolte anche dagli avvocati e consulenti dei familiari delle vittime. Gli stessi legali si sono invece scontrati con la Procura ordinaria sull'archiviazione delle accuse di falsa testimonianza formulate dalla Corte d'assise contro ex terroristi come Valerio Fioravanti e personaggi con tutt'altra storia come il generale Mario Mori.
L'istruttoria del giudice Falcone sul delitto Mattarella
Condannato in via definitiva per la strage di Bologna già dal 1995, Fioravanti è tornato a deporre come teste, sotto giuramento, nel processo che si è concluso nel 2024 con il verdetto finale di colpevolezza anche per Gilberto Cavallini, armiere, tesoriere e killer dei Nar, la banda armata neofascista di cui erano i capi operativi.
In aula, davanti alla Corte, Fioravanti torna a dirsi innocente per la strage alla stazione del 2 agosto 1980 e cerca di scagionare il suo vecchio complice, con risultati nulli. All'improvviso, inizia a parlare delle indagini sull'omicidio di Piersanti Mattarella, il presidente della Regione Sicilia ucciso nel gennaio 1980 per ordine della Cupola di Cosa Nostra. Falcone aveva indagato su quel delitto politico e si era convinto che i boss corleonesi avessero affidato l'esecuzione a killer esterni, legati a poteri occulti, identificandoli in Fioravanti e Cavallini, di cui come giudice istruttore ordinò l'arresto. Dopo la morte di Falcone, i due imputati sono stati assolti in tutti i gradi di giudizio. Le indagini sull'omicidio del fratello di Sergio Mattarella sono tuttora aperte, ma dopo 45 anni gli esecutori materiali continuano a restare impuniti.
Fioravanti a Bologna inizia a parlarne senza che nessuno glielo chieda, tra lo stupore di magistrati e avvocati, che ipotizzano un suo messaggio in codice. Dichiara che, mentre era in carcere per l'omicidio Mattarella, Falcone partecipò a una trasmissione televisiva dove «Leoluca Orlando cominciò a urlare contro di lui, accusandolo di tenere nel cassetto le prove contro i fascisti». Qualche giorno dopo, aggiunge Fioravanti sotto giuramento, Falcone sarebbe andato a trovarlo in cella, da solo, per confidargli che «a questa cosa di Mattarella non ci credo», ma «a questo punto, se non procedo, divento anch'io della P2».
Giovanni Falcone, dunque, avrebbe incarcerato Fioravanti pur sapendolo innocente, strumentalizzando i propri poteri di giudice per motivi politici, e lo avrebbe confidato proprio all'imputato da lui perseguitato. E dopo questa ammissione, lo avrebbe pure fatto segregare per sei mesi «in un regime speciale d'isolamento, in una gabbia di vetro con luci accese giorno e notte». La corte d'assise, nella sentenza di condanna di Cavallini, demolisce questo «castello di menzogne», facendo notare tra l'altro che la trasmissione televisiva andò in onda quando Falcone non faceva più il giudice.
La sentenza conclude che «ancora una volta Fioravanti non si pone limiti nel mentire», per cui va incriminato per «falsa testimonianza», commessa proprio con quella «calunnia sull'omicidio Mattarella», che è un reato più grave, ma non si può applicare «solo perché Falcone è morto».
Il verdetto della Procura di Bologna: testimonianza falsa, ma irrilevante
I familiari delle vittime invitano quindi a processare Fioravanti e altri accusati di falsa testimonianza. Ma la Procura ordinaria chiede di scagionare tutti, per motivi giuridici: i pubblici ministeri, che di norma rappresentano l'accusa, in questo caso difendono gli indagati. In generale, rimproverano alla Corte d'assise una «inutile dilatazione del processo», che avrebbe dovuto occuparsi «solo della strage di Bologna» e invece si è esteso a «fatti diversi, come l'omicidio Mattarella». Anche per la procura ordinaria è ampiamente provato che «Fioravanti ha esposto fatti falsi e denigratori di Falcone, la cui figura si staglia nel panorama italiano e mondiale come fulgido esempio di magistrato integerrimo», scrivono i pm, a scanso di equivoci.
Citando dotte sentenze, però, aggiungono che «la testimonianza deve avere ad oggetto fatti pertinenti al reato». Dunque, Fioravanti avrebbe dovuto deporre solo sulla complicità di Cavallini, che lo ospitò in Veneto, gli fabbricò un documento falso e gli prestò la macchina per andare a Bologna. Mentre la sua deposizione calunniosa sul caso Mattarella «si riferisce a fatti estranei all'oggetto del processo», per cui «non sussiste falsa testimonianza».
Un'assoluzione convalidata dal giudice di turno, con una brevissima motivazione che sposa la tesi della procura: la calunnia non si applica perché Falcone è morto; le illazioni di Fioravanti sul caso Mattarella sono «senz'altro false e diffamatorie, ma prive di rilevanza agli effetti della decisione» sulla strage, per cui quella testimonianza menzognera non è punibile.
Nuova assoluzione per il generale Mori: non ha mentito sulle stragi nere
Anche altri inquisiti dalla corte d'assise per falsa testimonianza si sono visti poi prosciogliere su richiesta della procura ordinaria. Il più in vista è Mario Mori, ex generale dei carabinieri e dei servizi segreti, processato più volte da circa trent'anni, mai condannato. Sentito come testimone nel processo a Cavallini, ha giurato di non essere mai occupato di indagini sull'eversione di destra, ma solo di mafia e terrorismo di sinistra. La Corte d'assise lo ha accusato di reticenza elencando una serie di atti istruttori con la sua firma: la perquisizione di un covo con un arsenale importante dei Nar, gli arresti di due terroristi di Ordine nero e soprattutto l'inchiesta sugli ufficiali piduisti del Sismi, poi condannati per i più gravi depistaggi della strage di Bologna.
La difesa di Mori ha replicato con una tesi credibile: lui firmava gli atti come comandante, ma non gestiva le indagini sui terroristi di destra, che erano affidate a una squadra specializzata diretta da uno dei suoi vice. Il generale invocava così un'assoluzione piena, senza ombre. Per blindarne la motivazione, la procura ordinaria e poi il giudice di turno hanno aggiunto un'argomentazione che ai familiari delle vittime è sembrata assurda e ha scontentato anche il generale, bollato suo malgrado come teste smemorato: è vero che aveva indagato in prima persona ed eseguito anche gli arresti dei depistatori piduisti, ma «a distanza di decenni», si legge nel verdetto, «poteva sorgere in Mori la convinzione che tale vicenda non fosse collegata alla strage di Bologna».
LEGGI ANCHE
L'E COMMUNITY
Entra nella nostra community Whatsapp
L'edicola
Il diritto alle vacanze - Cosa c'è nel nuovo numero de L'Espresso
Il settimanale, da venerdì 15 agosto, è disponibile in edicola e in app