Nel nostro Paese solo il 15 per cento delle interruzioni di gravidanza avviene in modo incruento con la Ru486. Contro il 93 in Finlandia e il 57 in Francia. Di chi è la colpa.  E cosa si deve fare 

Ho scoperto di essere incinta il 25 agosto, dopo 5 giorni di ritardo ho fatto il test. Positivo. Ho già un bimbo di due anni, il mio compagno è disoccupato e io precaria. Un bel casino. Ci pensiamo e ci ripensiamo. Decidiamo di non proseguire. Vado su Internet. Avevo sentito parlare della Ru486 e perciò chiedo al medico di famiglia come fare. Mi indirizza a una struttura ospedaliera dove c’è un poliambulatorio. Mi viene fissato un colloquio. Devo riflettere sulla mia decisione per una settimana. Intanto i giorni passano. Siamo a 46 e l’aborto farmacologico deve essere fatto, così vuole il regolamento, entro 49 giorni, ossia entro sette settimane. Da non credersi, alla fine ho dovuto fare il chirurgico in anestesia generale. Avrei preferito un metodo meno invasivo e gestire io la scelta. Invece l’ho dovuta delegare ad altri. Una beffa». Racconta Anna Z., una delle tante donne in Italia che non è riuscita ad accedere all’aborto farmacologico, reso possibile da noi dal 2009 quando l’Aifa (Agenzia italiana del farmaco) ha dato il via libera per l’utilizzo del mifepristone, noto con la sigla Ru486. Parecchio tempo dopo molti altri Paesi, come la Francia, dove è stato introdotto da circa trent’anni: esattamente nel 1989.

Ma non è questa la sola anomalia. «Al momento dell’approvazione dell’RU486, il ministero della Salute chiese un parere al Consiglio Superiore di Sanità che inspiegabilmente trasse conclusioni opposte a quelle dettate dalle evidenze scientifiche disponibili, raccomandando il ricovero ospedaliero dal momento dell’assunzione del farmaco fino alla “avvenuta espulsione del prodotto del concepimento”, ossia un ricovero che nella maggior parte dei casi sarebbe durato tre giorni. Paradossalmente mentre per l’aborto chirurgico è previsto il day hospital, per quello farmacologico no», dice Mirella Parachini, ginecologa al San Filippo Neri di Roma e già presidente della Fiapac (Federazione internazionale degli operatori di aborto e contraccezione).
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«Non solo. Mentre nel resto d’Europa si è stabilito che l’aborto farmacologico può essere fatto entro nove settimane da noi è possibile solo entro la settima, e questo fa sì che una notevole percentuale di donne ne venga esclusa», precisa Anna Pompili, ginecologa, e promotrice con Parachini di una petizione - avviata il 28 settembre e che ha già raccolto 6.500 firme - in cui si chiede alla ministra della Salute, Beatrice Lorenzin, di semplificare l’accesso all’aborto farmacologico, rendendolo possibile anche fuori dagli ospedali, nei consultori e in ambito ambulatoriale. Petizione sottoscritta da Amica (Associazione medici italiani contraccezione e aborto), Associazione Luca Coscioni, Aied (Associazione italiana per l’educazione demografica) e sottoscritta da un fronte ampissimo di associazioni e personalità del mondo della cultura e della scienza.

In Francia sono anche i medici di famiglia a dispensare i farmaci per l’aborto farmacologico che nel 2005 l’Organizzazione mondiale della Sanità ha inserito nella lista delle medicine essenziali per la salute. «E nei Paesi scandinavi la procedura è seguita dalle ostetriche che fanno il counseling e danno le pillole», precisa Parachini. Il limite delle sette settimane e la trafila del ricovero in ospedale fanno sì che il nostro Paese sia il fanalino di coda in Europa per le interruzioni volontarie di gravidanza farmacologiche: intorno al 15 per cento sugli 87.639 aborti eseguiti nel 2015, secondo la relazione annuale del Ministero della Salute sulla attuazione della legge 194 che ha reso legale l’aborto in Italia nel 1978. Diversamente da noi, in Inghilterra nel 2013 gli aborti farmacologici sono stati il 49 per cento del totale, in Norvegia l’82 e in Svizzera il 68. Mentre in Francia l’anno prima sono stati il 57 per cento e in Finlandia hanno raggiunto il 93.
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Non in tutte le nostre regioni si osserva la procedura stabilita dal ministero. In alcuni casi si sono messe a punto linee di indirizzo, sulla falsariga di quelle seguite all’estero, e si è scelto di attuare l’aborto farmacologico in day hospital, evitando i tre giorni di ricovero. La prima è stata l’Emilia Romagna, poi la Toscana, il Lazio e di recente la Puglia. Colpisce la grande variabilità in Italia delle percentuali di interruzione volontaria di gravidanza farmacologica: si va dal 40 per cento in Liguria, al 32 in Piemonte, al 25 in Emilia-Romagna, al 20 in Toscana, al 18 in Puglia, al 15 in Lazio al 5 in Lombardia e al 3 di Campania e Calabria. Nelle Marche non lo fa nessuno, tranne a Senigallia dove dall’anno scorso è partita una “sperimentazione” che prevede il day hospital e il coinvolgimento nella prima fase di procedura dei consultori.

Come si spiegano simili differenze fra regione e regione? «La questione sta nel rendere disponibile il metodo. Se si applicano politiche per favorirlo, non è certo la donna a dire di no» osserva Corrado Melega, ginecologo di Bologna, che ha contribuito con Carlo Flamigni all’esperimento pilota della sua regione, e con lui ha scritto “Ru486, le streghe sono tornate” libro in cui si fanno emergere verità e menzogne intorno a questa pillola.

«I rischi dell’Ru486 sono minimi e diminuiti nel tempo: è un metodo semplice e sicuro per il quale esiste un’esperienza trentennale. Che senso ha stare a letto due giorni dopo che si è presa la prima pillola?» continua Melega. Secondo la ministra Lorenzin in questo modo non si lascia sola la donna in un momento difficile della sua vita. «Ma sarebbe meno sola se potesse stare a casa con le persone a lei care invece che in ospedale, ignorata dal personale sanitario che non è tenuto a fare assistenza psicologica» commenta Pompili, che ricorda come consigliere della Lorenzin siano tra gli altri Assuntina Morresi ed Eugenia Roccella, autrici del libro “La favola dell’aborto facile: Miti e realtà della pillola Ru486” in cui si definisce la pillola «una grande truffa fatta sulla pelle delle donne, una truffa veramente atroce, sia per la carica di dolore che c’è nell’aborto in sé, sia per l’imbroglio che si fa quando si dice che l’aborto con la pillola è facile».

«La trafila per chi sceglie il farmacologico è forse più coinvolgente, la donna vive in diretta sul proprio corpo ciò che sta accadendo. Magari produce più ansia. In ogni caso è una scelta. Con il chirurgico si delega al medico il problema e ci si toglie il pensiero. Quando la donna si sveglia dall’anestesia è tutto finito» osserva Marina Ravizza, ginecologa all’Ospedale San Paolo, di Milano. È prassi diffusa ormai che dopo aver preso al primo giorno del ricovero l’Ru486, ovvero il mifeprisone, un antagonista del progesterone che impedisce lo sviluppo dell’embrione, la donna scelga di andare a casa e firmi la dimissione volontaria per poi tornare in ospedale il terzo giorno e assumere le prostaglandine che consentono all’utero di contrarsi ed espellere il feto. «Un andirivieni che comporta una trafila burocratica non da poco: occorre compilare due cartelle cliniche, una il primo e l’altra il terzo giorno. Un deterrente per molti ospedali a fare l’aborto farmacologico. Si complica un metodo di per sé semplice che potrebbe tra l’altro disinibire molti dei ginecologi oggi obiettori di coscienza» sostiene Anna Maria Marconi, docente all’Università degli studi di Milano e primario all’ospedale San Paolo.

La riluttanza dei ginecologi a eseguire aborti non è tanto per motivi religiosi. «Saranno il 10-15 per cento a obiettare per questo. È semmai una questione di ignoranza. Quando iniziano la specializzazione di ginecologia devono subito dichiarare se sono obiettori e nella sala in cui si fa l’interruzione di gravidanza non ci entrano. Non ne sanno nulla di aborto, tanto meno di Ru486, che in certi dispensari ospedalieri non esiste neppure. E poi gli aborti sono rogne. Si guadagna di più con la fecondazione in vitro», aggiunge Marina Toschi, vicepresidente dell’Associazione ginecologi territoriali (Agite).

In Umbria solo a Narni e Orvieto, su undici punti in cui si fa l’aborto, si utilizza l’Ru486. Nel 2010 una commissione di esperti della regione, insieme al Comitato etico, elaborarono un protocollo perché l’aborto farmacologico si facesse in day hospital ma cadde tutto nel vuoto. Clamoroso e più recente il caso del Lazio: l’aprile di quest’anno la Regione propose di partire con una sperimentazione di 18 mesi per consentire l’aborto farmacologico nei consultori familiari, senza più ricovero o day hospital. Sarebbe stata una rivoluzione e sarebbe dovuta partire a maggio. Ma si sono sollevati mille scudi e non se n’è fatto nulla.

«La ministra Lorenzin parla di appropriatezza delle prestazioni sanitarie. E poi si smentisce nei fatti. Tutte le pratiche mediche sono suscettibili di miglioramenti e sono ben accette, perché questa no? Le pillole si comprano ormai su Internet e sarebbe giusto adeguarsi ai tempi e parlare in difesa della 194 con un linguaggio nuovo», afferma Parachini. Il turismo dell’aborto farmacologico oggi avviene da una regione all’altra, o da una città all’altra della stessa regione, a seconda di dove è possibile farlo. «Da Frosinone, Viterbo, Rieti vanno per esempio a Roma. Da noi arrivano da città come Matera o altri centri del Sud. Oggi su 7.500 aborti che si eseguono ogni anno in Puglia, oltre il 10 per cento è con l’Ru486: a Lecce se ne fanno un po’, idem a Bari, a Foggia niente», racconta Antonio Belpiede, ginecologo all’ospedale di Barletta e uno dei pochi primari non obiettori. «Da circa un anno la giunta regionale della Puglia ha deliberato per il farmacologico in day hospital, per evitare ricoveri e liste d’attesa».

Nel 2009 quando l’Aifa approvò l’introduzione dell’Ru486 ci fu in Italia una grande opposizione da parte del mondo cattolico: si diceva che avrebbe facilitato l’aborto. Il cardinale Bagnasco parlò di deriva morale, di aborto semplificato senza più un controllo. A ricordarlo è Ravizza. «In realtà, gli aborti negli anni non sono aumentati, erano 234 mila nel 1983, 118.579 nel 2009, e sono stati 87.639 nel 2015. La contraccezione è aumentata e gli incidenti di percorso sono più rari. Le interruzioni di gravidanza sono tre volte di più tra le donne straniere rispetto alle italiane, per questioni culturali ma anche per condizioni di vita», spiega Angela Spinelli, direttore del Centro nazionale prevenzione delle malattie e promozione della salute all’Istituto Superiore di Sanità. «I timori di deriva per le pillole che “banalizzerebbero” l’aborto ruotano in realtà attorno al rapporto di potere tra medico e donna: si restituisce a lei la scelta riproduttiva. E forse», conclude Pompili «parte delle ostilità nasce da questo».