Se chiedete ai giornalisti perché scrivono “morti bianche” riferendosi a chi lascia la pelle sul lavoro, molti vi risponderanno con un “boh, si usa così”. Fu il linguista Giorgio De Rienzo a spiegare che «l’uso dell’aggettivo “bianco” allude all’assenza ?di una mano direttamente responsabile dell’incidente».
Così, in sostanza, si dà per scontata la fatalità, la casualità dell’evento, un po’ come per le morti in culla dei neonati, chiamate anch’esse “bianche”. Nel 2008 lo scrittore Marco Rovelli (nel suo libro “Lavorare uccide”) contestò quell’espressione «che purifica e cancella ogni macchia, cosicché nessuno sarà chiamato a risponderne».
Più di recente un operaio metalmeccanico toscano, Marco Bazzoni, ha deciso ?di scrivere a ogni testata che
usa quel modo di dire così falsificatorio, ottenendo talvolta ascolto nelle redazioni più sensibili e meno pigre.
No, non esistono le morti bianche. Esistono le morti sul lavoro (peraltro in aumento) che hanno sempre una causa e mai nulla di candido. Proviamo tutti a ricordarcelo, mentre parliamo, mentre scriviamo.