Potenti e criminali, mafiosi e terroristi vogliono dare una lezione e insegnare il dovere del silenzio. Per questo che non esiste altro Paese occidentale in cui sono stati assassinati tanti cronisti
Sul mestiere di giornalista è stato detto tutto il bene e tutto il male possibile, perché è un lavoro che si svolge nei pressi del potere, e (talvolta) al potere si oppone. Pensando alla grandezza storica di questa professione vengono in mente nomi di giornalisti che in tutto il mondo con il loro lavoro di ricerca e denuncia hanno salvato la vita a innocenti condannati a morte dai tribunali, oppure hanno realizzato inchieste fondamentali per la democrazia. E anche restituito un po’ di verità a questo Paese che ha sempre avuto paura di conoscerla. La tentazione di rimuovere la memoria è forte. Il lavoro svolto dai giornalisti è un vaccino contro l’ignoranza e le fake news, necessario perché l’opinione pubblica avvertita e responsabile sviluppi gli anticorpi. Ma è una pillola che non va giù, in particolare a potenti e criminali. Sarà anche per questo che non esiste altro Paese occidentale in cui sono stati assassinati tanti cronisti: uccisi dalle mafie e dal terrorismo politico. I giornalisti che muoiono in genere sono inviati di guerra. In Italia, invece, vengono uccisi e minacciati.
[[ge:rep-locali:espresso:285303175]]Potenti e criminali, mafiosi e terroristi vogliono dare una lezione ai vivi, insegnare loro il dovere del silenzio, l’obbedienza dell’oblio. E se al silenzio non ci siamo abituati lo dobbiamo anche a questi uomini che non ci sono più. Tutti avevano un unico obiettivo, quello di informare e denunciare. Quarant’anni fa il vice-direttore della Stampa
Carlo Casalegno, ex partigiano e liberale democratico fu ucciso dalle Brigate rosse per le sue idee, come racconta Ezio Mauro. Nel 2014
Andrea Rocchelli è caduto in Ucraina per il suo lavoro di photoreporter, come tanti che si sono spinti all’estero a raccontare traffici illeciti e i crimini contro l’umanità. O i tanti cronisti vittime di Cosa nostra. Profili diversi che testimoniano come sia cambiato il mestiere, ma avevano in comune la passione per la notizia, senza alcuna vocazione all’eroism o, solo al giornalismo. Vite che appartengono alla storia umana, politica e civile di questo Paese.
Dovremmo affermare quotidianamente il diritto “a sapere” con il giornalismo d’inchiesta, per sua natura il più scomodo e coraggioso, che si contrappone alla diffusa e purtroppo trasversale tentazione di dire che non conoscere è meglio. L’ultima ad aver pagato con la propria vita è
Daphne Caruana Galizia, la giornalista maltese uccisa con un’autobomba. Assassinata perché raccontava troppo. Lasciata sola dalle autorità cui aveva denunciato minacce di morte. C’è voluta una morte così violenta ed eclatante, nel tipico stile terroristico-mafioso, per far vedere che Daphne era una giornalista che doveva essere protetta, non solo dalle istituzioni, ma anche dalla società dell’isola in cui viveva. Matthew, il figlio di Daphne, racconta nel nostro giornale la mattina di sabato 4 novembre, giorno successivo ai funerali di sua madre. È uscito presto da casa, e i poliziotti che dovevano vigilare su di lui e sulla sua famiglia, davanti alla sua abitazione, dormivano nelle loro macchine. Racconta di essere tornato sulla scena dell’esplosione dove ha trovato un bloc-notes con l’intestazione “Premio Sakharov” che pendeva da alcuni ramoscelli bruciati. Su una pagina c’era scritto: «Ognuno ha diritto alla libertà di espressione».
Al sacrificio di Daphne potrebbe essere dedicato il grande lavoro d’inchiesta “
Paradise Papers” del consorzio investigativo ICIJ firmata in Italia da L’Espresso in sinergia con Report-Rai3. I giornalisti di queste due redazioni hanno scavato per mesi in una montagna di quasi quattordici milioni di documenti alla ricerca di politici, imprenditori, attori, cantanti e campioni sportivi che hanno investito nei paradisi fiscali. Dopo un lungo lavoro di riscontri e verifiche è stato possibile ricostruire vicende di grande rilievo politico e civile. Con ricadute anche sull’Italia. Raccontiamo storie importanti e pesanti e lo facciamo in collaborazione con Report, mettendo in campo due modi di fare inchieste, due linguaggi giornalistici, quello della carta stampata e della scrittura e quello televisivo e delle immagini, con una concezione comune dell’informazione. Di quel giornalismo d’inchiesta, che non piace ai potenti.