Dopo 17 anni di lavoro con un contratto a tempo indeterminato è stato mandato a casa. Ora attende il reintegro. Insieme a uno  scaglione di 500 colleghi. E se vinceranno la vertenza contro l'azienda italiana "faro dell'information tecnology", la loro battaglia passerà alla storia

«Io lavoratore licenziato da Almaviva, aspetto che ci venga restituita la dignità»

La storica decisione del giudice del lavoro di reintegrare 153 lavoratori di Almaviva è solo il primo atto di una battaglia giudiziaria appena iniziata. Il 15 dicembre è atteso, infatti, un nuovo pronunciamento giudiziario, e a gennaio sarà stabilito in tribunale il futuro di altri 500 reduci dal Natale nerissimo del 2016, quando la società italiana leader nel campo dei call-center e dell’information technology licenziò ben 1666 dipendenti in un colpo solo, smantellando l’intera sede capitolina.

L'ordinanza del giudice del lavoro di Roma parla chiaro: Almaviva deve reintegrarli tutti, e pagare gli stipendi pregressi. Perché quel licenziamento di massa è stato frutto di una “illegittima discriminazione: chi non ha accettato di vedersi abbattere la retribuzione (a parità di orario e di mansioni) e lo stesso tfr è stato licenziato, e chi ha accettato è stato invece salvato”.

Almaviva ha reagito annunciando di voler destinare i reintegrati nella sua succursale di Catania. “Il governo attivi tutti gli strumenti possibili per ottenere il blocco del trasferimento dei lavoratori e delle lavoratrici di Almaviva da Roma a Catania, vigilando sulla coerente attuazione delle pronunce giudiziarie di reintegro" questa la domanda che il gruppo alla Camera di Sinistra Italiana-Possibile porrà mercoledì al governo nell'aula di Montecitorio durante il question time. L’interrogazione parlamentare, indirizzata al ministro Poletti, continua così: “Le ordinanze del giudice del lavoro hanno riconosciuto che, in caso di licenziamenti collettivi, non si può addurre, come valida motivazione della scelta dei lavoratori da licenziare, un accordo che contenga criteri contrari a norme o principi costituzionali. Nel caso specifico, l'unica cosa che distingueva la sede romana era il costo del lavoro dei dipendenti perché, a differenza dei lavoratori di Napoli, quelli di Roma non avevano sottoscritto l'accordo in base al quale sarebbe scattata una riduzione della retribuzione. Almaviva è l'operatore che presta servizi a numerosi soggetti pubblici e il fatto che metta in atto licenziamenti discriminatori e, comunque, in spregio a regole che attuano precisi principi costituzionali, dovrebbe determinane l'esclusione dalle commesse e dai bandi futuri”. E “la scelta del trasferimento a Catania è da considerarsi ritorsiva e in violazione delle norme sui trasferimenti collettivi, sia in termini di preavviso che di coinvolgimento delle organizzazioni sindacali. Il governo blocchi i trasferimenti".

Raffaele Carbotti è uno dei 1513 addetti Almaviva ancora sulla graticola. La sorte sua e di altri 522 ricorrenti sarà conosciuta il 16 gennaio.
“Sono stanco, depresso e demoralizzato”. Raffaele, 52 anni, vive nella cintura metropolitana romana, a Palestrina e ha lavorato per Almaviva dal febbraio del 2000, dai tempi di Atesia. Era in servizio proprio nella fatale filiale di Roma. È sposato, e pure sua moglie ha lavorato in Almaviva fino alle scorse festività di fine anno. Prima che “i 1666 venissero soppressi, come ci hanno definito nella procedura di licenziamento”. La coppia ha un figlio di 6 anni da crescere.

Inchiesta
Call center, un disastro all’italiana
13/3/2015
Dal 2000 al 2012 è stato impiegato nella commessa 119 Tim. “Poi Tripi ha trasferito il 119 a Rende, in Calabria, mettendoci in cassa integrazione e al contempo assumendo personale lì in loco, utilizzando incentivi regionali” mi racconta Raffaele. Nel maggio 2013 un nuovo accordo, “con la commessa Eni, durata sino al dicembre 2016, al finale che tutti conoscete”.
Aveva un contratto a tempo indeterminato, ma “per modo di dire, visto che da un accordo sindacale all’altro si era sempre minacciati di licenziamento”. L’ambito era quello del contact center, “che non è semplicemente rispondere al telefono: ti occupi anche della parte amministrativa del cliente, dalla fatturazione alle rateizzazioni”.

Lo stipendio era magro. “Al netto della CDS (contratto di solidarietà), prendevo intorno ai 700 euro, e io ero tra i fortunati con un contratto di 6 ore. Mia moglie, per esempio, guadagnava molto meno. Insieme non percepivamo uno stipendio intero”. Un lavoro usurante. “Era snervante. Una stanchezza non fisica, ma psicologica, molto profonda”. L’orario del suo turno “cambiava ogni giorno”. La sua giornata-tipo di lavoro era questa. “Arrivavo, mi mettevo al pc e leggevo gli aggiornamenti su Intranet. Iniziavo a prendere le chiamate, una dopo l'altra, a un ritmo infernale e dopo due ore si aveva una pausa di 15 minuti. In questi minuti potevi berti un caffè alla macchinetta e andare in bagno. Poi tornavi in postazione, timbravi il ritorno dalla pausa e lavoravi per altre due ore filate, di continuo, senza fermarti mai, velocemente, per gestire il numero maggiore di chiamate. Infine c’era l’ultima sosta, che spesso si usava per pranzare al volo”.

Quando nel 2016 è arrivato, come regalo natalizio, una lettera di licenziamento, Raffaele ha provato “un senso di devastazione, di impotenza, di angoscia profonda per le conseguenze che questo fatto avrebbe avuto sulla mia famiglia, su mio figlio” mi dice ancora. E la proposta che era stata avanzata dall’azienda “era irricevibile… il 90% di noi è un part-time a 4 ore. Avremmo dovuto lavorare, al netto delle spese di viaggio, per 350 euro al mese”.

La sentenza di qualche giorno fa gli ha fatto tornare la voglia di sperare. “Non ci credevo più, i sindacati e il governo si erano comportati come Almaviva, avevano sempre eseguito quello che Almaviva gli chiedeva di fare, sembravano delle nostre controparti. Avevamo perso ogni fiducia nelle istituzioni democratiche. Ci sentivamo e ci sentiamo sfruttati e manipolati. Non ci aspettavamo più questa bella notizia, anche se l’auspicavamo”.

A gennaio tocca alla loro, di vertenza. “Ci auguriamo che ci restituiscano, finalmente, giustizia e dignità. La dignità di un lavoro giustamente retribuito. Una dignità a lungo negata, a colpi di liberatorie e sanatorie, part-time coatto, accordi al ribasso, casse integrazione, contratti di solidarietà al 45 per cento. E sotto la minaccia costante e sistematica dei licenziamenti collettivi”.

Susanna Camusso li ha definiti degli “scudi umani”. “Di fatto lo siamo stati, e lo siamo ancora”.

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