L’Occidente l’ha rimossa come dimensione collettiva. Ma è un rischio potenzialmente catastrofico. Perché nessuna comunità può esistere senza possedere tacite regole di interazione tra membri che si riconoscono come tali
Il processo centrifugo cui stiamo assistendo in Europa, di cui Brexit e indipendentismo catalano sono solo due esempi, pone un problema cruciale, che ci rifiutiamo sistematicamente di affrontare. Si tratta del problema posto dal senso di un’identità collettiva. Tra le parole che godono di peggiore stampa nella riflessione pubblica contemporanea vi è certamente il termine “identità”. “Politiche identitarie”, “rigurgiti identitari”, “identitarismo” sono espressioni con una connotazione reazionaria, assimilate spesso a posizioni di estrema destra. L’origine di quest’assimilazione sta nell’identitarismo nazionalista che ha funestato la prima metà del XX secolo, producendo politiche internazionali aggressive e politiche nazionali autoritarie.
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Tuttavia demonizzare le degenerazioni identitarie del ’900 non aiuta a comprendere il fenomeno. I nazionalismi sciovinistici di fine ’800, che condussero poi ai due conflitti mondiali, furono a loro volta parte di un processo di reazione ai nuovi fattori disgregativi messi in campo dal neonato sistema del libero commercio transnazionale (prima forma della globalizzazione economica). Inquadrare storicamente il fenomeno non serve a giustificare quelle degenerazioni, ma a comprendere come le istanze identitarie non siano meri “errori”, ma esigenze profonde, problematiche ma impossibili da rimuovere.
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Nessuna cultura storica ha osteggiato l’idea di un’identità collettiva più sistematicamente di quanto abbia fatto l’Occidente contemporaneo, dominato da un senso comune liberale, maturato all’ombra della trionfante economia di mercato. In questa cornice culturale ciascun individuo è invitato, e robustamente incentivato, a “trovare la propria strada”, a “imporsi con le proprie forze” in una competizione con tutti gli altri, a inorgoglirsi per la propria irriducibile originalità, ecc. Che a questi tratti di brioso e combattivo ottimismo si accompagnino lati oscuri, come il logorio di ogni legame interpersonale, l’elevatissimo tasso di incomunicabilità, l’estrema difficoltà a trovare “affini” (sul piano amicale quanto sentimentale), ecc. è tema demandato ai “travagli personali”, ai “problemi psicologici” da risolvere privatamente, con la propria coscienza o il proprio terapeuta.
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Questa rimozione di ogni tensione identitaria è però un atteggiamento erroneo, e potenzialmente catastrofico. Nessuna comunità o società è mai esistita, o può esistere, senza possedere tacite regole di interazione tra membri che si riconoscono reciprocamente come tali. Ritenere che le “Grandi Società”, diversamente dalle piccole comunità, possano fare a meno di questa dimensione tacita, avendola sostituita con leggi e regole formali, è un’illusione. Nessuna legge o regola funziona da sola, e nessun guardiano può sorvegliarne ovunque l’ottemperanza. Leggi e regole funzionano se implementate partecipativamente dai cittadini, e questi lo fanno tanto più, quanto più si sentono investiti di un’identità collettiva. In assenza di questa dimensione di adesione volontaria possiamo aggiungere regole su regole e divieti su divieti, senza regolare un bel nulla.
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Un’identità collettiva è una forma d’esistenza idealmente in grado di sussistere autonomamente e di riprodursi intergenerazionalmente. Essa è il correlato collettivo di un mondo possibile. Per ciascun individuo riferirsi a un’identità collettiva è l’unica cosa che, in una dimensione laica, permette di concepire i propri atti, valori, successi, retaggi e auspici come qualcosa che potrà avere una possibile continuazione al di là dei limiti della caducità individuale. È quella dimensione che idealmente consente di preservare il proprio senso e i propri valori nel tempo, riproducendo pratiche e istituzioni che fanno esistere un gruppo sociale e il suo mondo. Trattandosi di pratiche, tradizioni, valori e istituzioni che consentono ad un gruppo e al suo mondo di autoriprodursi, le identità collettive non possono basarsi su attività circoscritte, hobby, e simili: metallari o filatelici, interisti o vegani, non formano autentiche identità collettive. Un’identità collettiva può sostenere “appartenenze multiple”, ma solo in forma di diversi livelli di comprensività: identità famigliare, comunitaria, urbana, regionale, nazionale, europea, ecc.
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La rimozione costante, alimentata dalle spinte concorrenziali del sistema economico, di ogni identità collettiva tende a generare ciclicamente reazioni di rigetto. Così, l’ordinamento liberale, e la sua ricetta di frammentazione sociale, prepara sempre il terreno per le proprie negazioni, dall’autoritarismo aggressivo dei nazionalismi del primo ’900, all’odierno identitarismo islamico antioccidentale tra immigrati di seconda generazione, a localismi e regionalismi vari. L’esigenza identitaria è tanto ineludibile quanto sensibile a degenerazioni. In Italia le reazioni identitarie degli ultimi anni hanno preso strade non di rado patetiche. Il “recupero delle radici” in forma regionalista o localista si è convertito spesso in iniziative di imbarazzante provincialismo, in un crescendo incestuoso di sagre del salume nativo, festival del poeta di cortile, mostre dell’imbrattatele indigeno, ecc. In molte aree d’Italia sembra ormai obbligatorio, perché un prodotto culturale venga sponsorizzato, che glorifichi qualche prodotto caseario o letterario locale, spesso di essenza intercambiabile.
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A monte di questa tendenza sta un fraintendimento dell’idea di “identità” che viene concepita come qualcosa di statico e retrospettivo-nostalgico, dimenticando che ogni identità storica degna di memoria è stata caratterizzata sì dalla coltivazione di quanto ereditato, ma in vista dell’assimilazione e conquista del buono altrui. Un’identità non si ha. Un’identità si diventa, alimentandola, difendendola, costruendola. Un’identità collettiva è quel luogo ideale dove possono verificarsi la concordia circa ciò che è degno di memoria, l’unità in ciò che è degno di essere sperato, la collaborazione in ciò che può essere progettato. Un’identità forte non ha bisogno di essere coercitiva, essendo intrinsecamente persuasiva. Un’identità forte consente maggiore, non minore libertà di quella presente in società destrutturate, proprio perché può contare di più sul controllo sociale e sulla condivisione di obiettivi. Sono le identità fragili a tendere all’aggressività, dovendo costruirsi costantemente un nemico, in quanto senza opporsi ad esso non saprebbero di quali contenuti godere.
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Un’identità collettiva non viene all’esistenza perché è utile: non appartiene alla sfera dei mezzi, quanto piuttosto a quella dei fini, o delle condizioni per la loro esistenza. Essa non “serve” a qualcos’altro, non dipende da alcuna utilità estrinseca, ma si presenta come una dimensione naturale di ciò che conferisce e nutre valore. Per quanto rischiose siano le sue derive, la dimensione dell’identità collettiva è un orizzonte che non può essere cancellato: può essere soltanto, o coltivato, o lasciato marcire – in quest’ultimo caso con esiti tossici.