La madre di Federico racconta la quotidianità di un ragazzo che non si identifica con il genere maschile. Lo psichiatra: «Fortunatamente è in crescita il numero di persone che non vogliono più soffocare la propria vita per paura del giudizio della società»

Federico è nato maschio, e da quando aveva un anno e mezzo ha iniziato a esprimere l’esigenza e il desiderio di essere anche femmina. Un po’ come Alex, il protagonista di Fa’afafine, spettacolo teatrale di Giulio Scarpinato che prende in prestito una parola della lingua Samoa usata per identificare chiunque voglia sentirsi liberamente maschio e femmina. Federico, però, non è un personaggio di scena. E, al contrario di Alex, non ci pensa proprio a vestirsi anche da maschio. La sua storia arriva in libreria il 30 novembre con il volume “Mio figlio in rosa” (Manni Editore, pp. 208, 16 €). A scriverla, come dice il titolo, è stata sua madre, Camilla Vivian, con l’obiettivo di raccontare una quotidianità fatta di normalità, ma pure di confronto con il contesto sociale.

Eppure, a emergere in modo chiaro, è soprattutto l’intenzione di accogliere e ascoltare suo figlio, di farlo sentire libero di esprimere se stesso senza la costrizione di un adeguamento a qualcosa che non gli appartiene. E il 13 dicembre, Vivian sarà in Senato per un incontro organizzato dal senatore Sergio Lo Giudice che coinvolge anche le famiglie: ci sarà pure Mariella Fanfarillo, madre di Olimpia, 17enne transgender alla quale il tribunale ha riconosciuto da poco la rettifica dei dati anagrafici senza l’intervento chirurgico di riattribuzione del sesso.
Si chiama disforia di genere, e consiste nella mancata coincidenza tra il sesso biologico e quello sentito. D’altronde, “disforia”, dal greco, vuol dire mal sopportare, difficoltà di sopportare. Inserita nel Dsm-5, il grande manuale diagnostico e statistico dei disturbi mentali, questa discordanza veniva inizialmente indicata come Disturbo dell’identità di genere, mentre il passaggio a “disforia” evidenzia la necessità di voler guardare alla sofferenza che l’individuo incontra nel suo percorso.

Per Bernardo Carpiniello, presidente della Società Italiana di Psichiatria e Ordinario all’Università di Cagliari, “non è giusto, e nemmeno possibile, discutere di correzione e riconduzione al sesso biologico. Bisogna invece aiutare queste persone, accompagnarle nella comprensione di se stesse e, laddove lo vogliano, in una transizione al sesso percepito, che in Italia è possibile gratuitamente in strutture pubbliche. Ma non tutti arrivano a una transizione completa: c’è chi si ferma a terapie fisico-ormonali e c’è chi rifiuta di avere un’etichetta di genere, perché vuole sentirsi libero di essere se stesso, senza dichiararsi necessariamente maschio o femmina. Inoltre, la mancata accettazione di sé, anche a causa dello stigma sociale, può portare ansia, forte depressione e autolesionismo. Quando poi queste persone sono vittime di violenze (l’Arcigay riporta che dal 2008 al 2016 sono state 2.343 e nel 2017 se ne contano approssimativamente 60, ndr), possono incorrere nel disturbo da stress post-traumatico. Ma oggi qualcosa sta migliorando, anche se lentamente e con passi difficili. Il numero di chi non vuole vivere costretto in un corpo che non sente appartenergli non è aumentato. Sta aumentando, per fortuna, il numero di chi non vuole più soffocare la propria vita per paura del giudizio della società”.

Un elenco dei centri italiani è disponibile sul sito dell’Onig (www.onig.it) – Osservatorio Nazionale sull’Identità di Genere e “nei contesti in cui c’è maggiore coscienza e consapevolezza dei servizi assistiamo a un aumento delle richieste del 1.400%, soprattutto di adolescenti”. Lo dice Paolo Valerio, presidente dell’Onig e professore ordinario di Psicologia Clinica alla Federico II di Napoli. “Bisogna preparare il paese a questo. Bisogna aumentare i professionisti competenti e coinvolgere tutte le realtà possibili. Molti atenei permettono già agli studenti transgender di essere chiamati con il nome che sentono più congeniale, mentre a Napoli e a Verona questa possibilità c’è anche per il personale, docente e non. Bisogna abbattere lo stigma”.

“Non è una malattia”, commenta Cathy La Torre, vicepresidente del Mit – Movimento Identità Transessuale e avvocato che ha trattato più di 7mila cause su questo tema. “Non è nemmeno una scelta, così come non lo è essere eterosessuali, ed è cosa diversa dall’orientamento sessuale. Vogliamo la depatologizzazione, ma temiamo che il contraccolpo della cancellazione dal Dsm possa essere la perdita della gratuità di trattamento sanitario, che invece dovrà continuare a essere garantita. E insistiamo perché le strutture, sanitarie e non, superino finalmente il problema della presa in carico di persone che non rientrano nel classico binario uomo-donna, e che non sanno ogni volta come accogliere. Ci sono persone che cambiano vita per ritrovare finalmente se stesse, anche a 50 e 70 anni. E ci sono rifugiati e richiedenti asilo che fuggono dai paesi d’origine proprio perché temono per la propria incolumità, ma poi nei centri d’accoglienza vanno incontro proprio al sistema binario. A Bologna apriremo presto Rise The Difference, il secondo progetto di questo genere in Europa per accogliere per rifugiati e richiedenti asilo gay, lesbiche e trans”.