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La Storia talvolta è capricciosa e sorprendente: in Polonia, un Paese in cui per decenni mancava ogni pensiero femminista, oggi è il linguaggio femminista l’unico idioma in grado di rappresentare un futuro che non sia di razzismo e oppressione. E forse questa vicenda, la costruzione di un nuovo linguaggio sulle macerie di ogni idioma di sinistra, non riguarda solo la Polonia. Joanna Scheuring-Wielgus la incontriamo in un ristorante di fronte al Parlamento. Deputata, ha 45 anni e tre figli. È nata in una famiglia cattolica; padre ex marinaio, seguace di Kaczynski. Lei è il volto più popolare della resistenza parlamentare. A volte, con voce calmissima, chiede ai rappresentanti della maggioranza: «Non costringeteci a mandarvi in galera per aver violato la Costituzione, quando non sarete più al potere». Dice che «in Polonia le donne sono minacciate nella loro sicurezza personale» e quindi «la difesa dei loro corpi coincide con la difesa della democrazia». Poi, man mano che la conversazione si fa meno formale, racconta quanto le famiglie siano spaccate in due, con fratelli e sorelle che non si frequentano più; come ai tempi dell’affaire Dreyfus in Francia. E dice che l’unico modo per ripristinare un minimo di coesione sociale è l’azione delle donne, perché «abbiamo la capacità di tessere reti, di dialogare». E poi: «Ricordiamoci che quasi la metà dei polacchi è a favore della libertà di scelta per quanto riguarda l’aborto». Annuncia una proposta di legge in tal senso, che verrà presentata al parlamento e anche se non passerà «sarà un atto politico importante». Aveva 17 anni Scheuring-Wielgus quando la Polonia divenne democratica. La nuova libertà aveva un nome e cognome, Lech Walesa, maschio, cattolico, leader leggendario di Solidarnosc. E oggi, per una donna che per ragioni anagrafiche non ha fatto la Resistenza al comunismo, chi è Walesa? «Un simbolo, un uomo cui bisogna essere grati». Un modo per dire (e lo ripeteranno quasi tutte le nostre interlocutrici): un uomo del passato. Krystyna Kacpura invece di anni ne ha sessanta. Dirige la Federazione per le Donne, un’organizzazione che si occupa di contraccezione, diritti sessuali e pianificazione familiare. Dice: «I politici di Solidarnosc assieme agli ex comunisti, nei primi anni Novanta decisero di far pagare alle donne il prezzo del servizio che la Chiesa ha reso alla Polonia (fu la Chiesa a garantire la transizione di potere nell’estate ’89). L’aborto fu proibito, se non in pochissimi casi, e le donne private dei diritti». La frase appena citata spiega perché le donne per difendere se stesse abbiano dovuto inventare parole nuove, fuori dalla politica istituzionale. O meglio, l’illusione allora era che l’incontro tra una sinistra liberale e un cattolicesimo democratico, sotto l’egida di Karol Wojtyla (e che diede l’origine a Solidarnosc), potesse rifondare la società e la Chiesa.
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«Sì, le donne sono il motore della rinascita della società civile», conferma Agata Diduszko-Zyglewska. Trentacinquenne, è la penna più importante di Krytyka Polityczna, rivista di sinistra e radicale. Parla di cose concrete. L’aborto è una questione di classe: le donne benestanti possono permettersi di andare all’estero; quelle più povere devono arrangiarsi. Ma anche: una donna su quattro ha almeno una volta interrotto la gravidanza; sempre più numerose sono le donne che lasciano la Chiesa (si parla di due milioni di persone); un fenomeno che però non porta i vescovi a un ripensamento, ma anzi verso posizioni sempre più rigide. Cita vicende di giovani madri indotte a portare la gravidanza fino in fondo, al costo della vita. Insiste: non c’è rassegnazione; c’è la rivolta.
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]Commenta Beata Chmiel, animatrice di Cittadini di cultura, attori, scrittori, registi contro il potere: «Oggi, nell’era della comunicazione emozionale e giocata con il corpo, le donne sono vincenti, perché a differenza dei maschi sanno gestire e organizzare le emozioni e il corpo».
Proviamo a tirare le fila. Lo facciamo ascoltando le due madri del femminismo polacco. Kazimiera Szczuka ha 51 anni ed è critica letteraria. È stata lei, assieme ad Agnieszka Graff, 47 anni, anglista e scrittrice, a imporre, a partire dai primi anni Novanta la cultura femminista in un Paese prigioniero del mito della madre polacca che genera i figli perché muoiano per la Patria. Szczuka ama indicare le dicotomie. Dice: «È il tempo del femminismo del rischio e non del femminismo delle vittime». Il primo ha l’ambizione di trasformare la società, tutta. Conclude:«La rivoluzione delle donne è di lunga durata, è inclusiva e non esclusi va, perché il femminismo è inclusivo per definizione». Tutto bene, quindi? No. Graff è più cauta. Racconta quan to il potere abbia dato alle donne più povere soldi (120 euro al mese per ogni bambino) e welfare. E quanto sia riuscito a creare una narrazione basata sul concetto di dignità. Kaczynski e i suoi insistono nel dire: attenti, l’Occidente è marcio perché abolisce la differenza tra maschi e femmine; perché non riconosce le tradizioni e i vecchi usi. È una narrazione dai sottotoni antisemiti e razzisti, ma efficace, soprattutto alla luce del fallimento del liberalismo. E allora che fare? Sorride e risponde: rendere p er esempio femminili i simboli patriottici. Ecco, la destra usa il simbolo della Resistenza patriottica appunto, so t to l’occupazione tedesca: una P con due semicerchi alla base, in modo da creare l’immagine di un’ancora.
Ci sono femministe che con un tratto di penna, anzi con due punti, trasformano i due semicerchi, in un paio di tette. E con questo esempio di un linguaggio femminile che sovverte e rovescia i segni (la patria è donna o forse è matria, Murgia docet) si potrebbe chiudere il discorso.
Ma diamo l’ultima parola a una scrittrice di noir, Katarzyna Bonda, 47 anni, bionda, truccatissima, tostissima, vittima dello stalking dei fascisti per via dei suoi libri. Dice: «Io ho assaggiato la libertà e non ci rinuncio. Le donne non generano i conflitti, ma quando si sentono aggredite diventano leonesse. Le mie colleghe che una volta scrivevano d’amore, oggi parlano il linguaggio della Resistenza».