Siamo divenuti apatici, freddi, incapaci di distinguere i pericoli reali da quelli psicologici. Per questo il terrorismo ci fa più paura dell'inquinamento. E per questo siamo incapaci di ridare anima alla politica

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Da sempre esistono guerre locali. A differenza di oggi, qualche decennio fa si discuteva continuamente il rischio della loro escalation: anzi, questo termine è entrato nella lingua italiana proprio insieme alle radicali critiche sull’intervento americano in Vietnam.

Sottoposto a una continua pressione, il paese più forte del mondo si arrese a una risibile ex-colonia francese. «Diciamo che abbiamo vinto e andiamocene» fu il commento all’incredibile ritirata. Oggi gli Stati Uniti fronteggiano un altro paesucolo asiatico, il Nord-Corea, che minaccia addirittura una escalation nucleare: però nessuno scende in strada vedi articolo a pagina 18).

Si può rispondere che non è più necessario, perché ci si mobilita virtualmente. Ma non è la stessa cosa. L’aggregazione fisica era “calda”, impregnata di emozioni: al punto che, al termine di una manifestazione, invece di sciogliersi, certi dimostranti trasformavano la loro fiamma interna in fuoco vero, incendiando simboli come banche o consolati. La mobilitazione tramite internet è invece “fredda”. Spegnendo il computer i più tornano apatici, rassegnati se non depressi.
L'analisi
Sì, dobbiamo avere di nuovo paura della guerra
2/5/2017

Assad usa armi genocidarie contro una parte dei propri sudditi e ne condanna milioni alla fuga; il pazzo nordcoreano - visibilmente drogato di cioccolatini mentre il suo popolo è decimato dal digiuno - compie esercitazioni nucleari. Ma le piazze restano vuote. Non c’è più differenza tra pace e guerra? E neppure tra i vari pericoli? Non molto tempo fa sottolineavo - in televisione, sull’Espresso il 12 marzo - come il pubblico d’Europa sembri incapace di valutare i “nuovi pericoli”, quindi di collaborare a una politica che li fronteggi: si accontenta della “convinzione paranoica” che il terrorismo sia il nemico principale.

La prima pagina del New York Times ha addirittura suggerito che la paranoia stia sostituendo le idee politiche (Ivan Krastev, 17 marzo). Certo, i morti per terrorismo sono aumentati: secondo la Bbc, nell’Unione europea sarebbero stati 175 nel 2016. Ma anche le morti per l’inquinamento dell’aria aumentano: sempre nella Ue, nel 2015 sono state più di 400.000 (non quattrocento, quattrocentomila) quelle attribuite al solo particolato; aggiungendo altri inquinanti atmosferici si arriva intorno al mezzo milione (European Environment Agency Report, pp. 8 e 9). Qual è il rischio più grande? Il pericolo maggiore, prima ancora che politico, è psicologico: fissarsi su un nemico malvagio e sconosciuto. Il capro espiatorio cui si può attribuire tutto senza spiegare niente: proprio come fece Hitler con gli ebrei. Se ci preoccupassimo del rischio maggiore, quello dell’inquinamento, non potremmo permetterci una simile pigrizia mentale: dovremmo ammettere che il danno è causato anche dalle nostre abitudini inquinanti, dovremmo essere più autocritici. Invece restiamo apatici.

Trump fa suo questo tragico restringersi dell’intelligenza, disinteressandosi della questione ambientale. Paradossalmente, a conferma di come i soggetti politici vengano sostituiti da quelli privati, la buona notizia viene dalla più capitalista delle imprese americane. Con il Progetto Gigaton, Walmart annuncia che entro il 2030 ridurrà le sue emissioni di un miliardo di tonnellate: come eliminare 211 milioni di automobili all’anno.

Una conseguenza delle nostre semplificazioni mentali è la crescita dell’intolleranza: le infezioni psichiche, infatti, sono “vere” quanto quelle batteriche. Al di là della macropolitica di Trump, la sua intolleranza ha già contagiato anche i funzionari ai livelli più bassi. Quotidiane sono le denunce di controlli di polizia o di frontiera diventati più brutali; cosa mai avvenuta nella storia dell’aviazione, un passeggero seduto e con biglietto (americano ma di etnia cinese) è stato fatto scendere da un aereo con la forza, sanguinante.

In Europa, alla vigilia delle elezioni francesi, l’Isis ha promosso il razzismo con un attentato al centro di Parigi. Osservare che l’Isis sta arretrando militarmente è un’autoconsolazione da poco. Forse l’Isis sarà spazzata via dalla geografia, ma potrebbe aver vinto la sua battaglia delle psicologie. È riuscita a infilare un cuneo avvelenato dove religioni e popoli diversi convivevano da millenni. I cristiani fuggono dalla Siria e dall’Iraq, i copti dall’Egitto.

Anche Hitler è stato spazzato via militarmente, ma il suo tentativo di inoculare odio etnico ha infettato l’inconscio dell’Europa. Del resto, secondo diversi storici, Hitler e Stalin si copiavano a vicenda. Uno sconfitto militare può divenire il trionfatore psicologico. La Russia, principale avversario di Hitler, potrebbe essersi trasformata nel più nazionalista e intollerante tra i paesi d’Europa. Formalmente gode di libertà democratiche: sostanzialmente impedisce perfino la pubblicazione degli scritti di un insignificante psicoanalista come me (il mio testo “Paranoia”, che discute il rapporto tra questa e la politica).

Se prestiamo fede non alle cronache del momento, ma agli studi degli storici, gli eventi politici sono più complessi e vengono da più lontano di quel che sembra. Hitler non era l’antecedente assoluto; era, a sua volta, un prodotto oscuro della modernità: del nazionalismo e delle intolleranze che nel XX secolo, quando la scienza si afferma e ci porta benessere, sfociano nella più antiscientifica delle dottrine, il razzismo.

Se ne parliamo poco, non è perché l’abbiamo superato: al contrario, è perché ci siamo assuefatti e rassegnati. I grandi imperi multinazionali, austro-ungarico e ottomano, erano affetti da malattie senili, ma riuscirono a contenere per secoli estreme differenze culturali, linguistiche, etniche, religiose. In questo senso le stragi della ex-Jugoslavia, e quelle israelo-palestinesi, che sembrano non terminare mai, sono ancora una conseguenza della scomparsa del contenitore multietnico ottomano nel 1918. Gli stati nazionali sono per definizione incapaci di offrire un equilibrio equivalente: per questo la disgregazione dell’Unione Europea porterebbe un caos che va ben al di là di quello economico. Rassegnarci anche a questo sarebbe molto rischioso.