Sorride oggi Lawang, leccandosi le mani appiccicose di dal-bhat, riso e lenticchie speziate, cibo povero e quotidiano di tutti i nepalesi. Poi guarda giù, verso i sassi del fiume che dalle montagne dell’Himalaya scende ancora impetuoso verso il Terai. «Quel giorno eravamo tutti dentro casa», ricorda sua madre, Sarasoti Khadra, sulla trentina, una cicatrice che dalla spalla arriva al polso: «Per un istante ho pensato di scappare nei campi ma poi sono rimasta immobile, impietrita; con i bambini ci hanno tirato fuori cinque ore dopo». Lei si è rotta il braccio mentre Lawang e le sorelle - otto, sei e due anni - sono rimasti illesi. Quasi un miracolo, quello avvenuto a Sindhupalchowk, il distretto sulla via della Cina, il più colpito dal sisma del 2015. Ma un miracolo tipico di questo Paese che non si arrende mai, che ricomincia sempre. Che interpreta ogni giorno, quando si sveglia, la filosofia orientale dell’impermanenza e della rinascita.
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Sarasoti ci offre tè caldo con sale, latte e burro di bufalo, segno di benvenuto. «Da un mese sono rimasta sola», spiega: «Mio marito è andato a lavorare in Arabia Saudita per ripagare i debiti della casa nuova». Nelle settimane dopo il terremoto è stata aiutata dal Community Self Reliance Center, una delle associazioni locali della rete di ActionAid. «Così abbiamo potuto comprare qualche capra e mettere su un piccolo allevamento», dice: «Insieme con il granturco e il riso, ci ha permesso di andare avanti». ActionAid ha progetti in 21 distretti del Nepal ma dopo il terremoto gli interventi si sono concentrati nella regione che dalla valle di Kathmandu sale verso Sindhupalchowk. In meno di un anno sono stati costruiti 7.000 rifugi e 10 mila scuole provvisorie, mentre a più di 20 mila persone sono stati garantiti cibo e coperte, nei mesi peggiori.
Oggi l’emergenza è lontana, ma le difficoltà del Nepal sono quelle di sempre: il reddito pro capite resta sotto i cento dollari al mese, i ragazzi lasciano le campagne per finire sfruttati nelle fabbriche tessili e nei cantieri edili in città, nei villaggi si campa come un secolo fa e spesso si fanno decine di chilometri a piedi per raggiungere il fiume più vicino dove prendere acqua. Kathmandu, che era un magico paesone di templi di pietra e di case di mattoni rossi, meta prediletta di tanti hippy, si è trasformata negli anni in una caotica metropoli di cemento e smog, dove i tuc-tuc hanno lasciato il posto alle automobili di fabbricazione cinese. Eppure è ancora la quarta città più economica del mondo, dove si può vivere con qualche centinaio di rupie al giorno, insomma poco più di niente.
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E anche dopo il terremoto il Nepal si porta dietro le sue infinite contraddizioni. Da un lato ci sono le piazze antiche ricostruite come prima e tornate allo splendore lasciato dagli antichi newari, e c’è il grande stupa di Bodnath appena restaurato che brilla del suo bianco sgargiante e dei suoi occhi dipinti di blu. Dall’altro lato ci sono le mille oscurità che il Paese ha nel sangue: un terzo delle donne che si sposa prima di aver raggiunto i 18 anni, gli uomini spesso costretti in semi-schiavitù negli Emirati o in Qatar, dove hanno costruito gli stadi che ospiteranno i mondiali di calcio.
E poi i bambini, i bellissimi bambini del Nepal, frutto del più riuscito incrocio tra le etnie indoariane e quelle di origine tibetana, i bambini che giocano su altalene di bambù in montagna o si rincorrono nei vicoli dietro Durbar Square a Kathmandu. I bambini che al mattino sfilano nelle loro divise azzurre verso la scuola, «anche cinque ore al giorno tra andare e tornare», come ci spiega Chhenjangiby Prado, preside a Timbu, un villaggio aggrappato all’Himalaya che a giorni le piogge monsoniche renderanno irraggiungibile: «Negli zainetti portano gli avanzi del giorno prima e in un caso su due arrivano già con lo stomaco vuoto e non riescono a concentrarsi, sui banchi».
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Poi ci sono altri bambini, quelli che vengono venduti a migliaia per i traffici più immondi, così come immondo e intoccato è il business della compravendita di reni che ancora cresce nel Paese, complici gli acquirenti occidentali e gli ospedali indiani in cui gli organi vengono espiantati. Infine, però, ci sono anche i bambini salvati, come quelli del Children Village di Bhakunde, vicino a Pokhara, alle pendici del Machapuchare. Un luogo dall’aria tersa dove l’Annapurna si specchia nel lago Fewa, base di partenza per tanti trekker, dove una dozzina d’anni fa un tedesco matto e generoso, Alexander Schmidt, decise di comprare un terreno e costruirci una casetta per dare un alloggio a una bimba sottratta alle ruote di un’automobile mentre gattonava per strada. Un salvataggio che avrebbe dovuto concludersi rimettendo la bimba tra le braccia di una madre, un padre, qualcuno: se qualcuno ci fosse stato, ma non c’era. Poi a poco a poco al Children Village i ragazzini si sono moltiplicati, le casette anche: e oggi questo ostello rappresenta una case history d’eccellenza, che offre non solo un tetto ma anche scuola, cure mediche e affetto agli ormai oltre cento bambini che vi abitano, sostenuti dalle donazioni di una rete che dalla Germania è arrivata all’Italia grazie all’impegno di una matematica e scrittrice romana, Patrizia Bisi, che ormai trascorre una parte del suo tempo in Nepal.
Così come italiana è un’altra Ong che è diventata un punto fermo in Nepal, la romagnola Apeiron, che a Kathmandu vive grazie al lavoro di Barbara Monachesi, una ragazza arrivata qui per caso una dozzina di anni fa. Anche lei poi ha deciso di restare: è avvenuto dopo l’incontro con Pramod, un bambino di strada diventato suo figlio adottivo. La famiglia di Barbara si è poi allargata (un marito nepalese e altre due figlie) e oggi lei contribuisce con i suoi progetti a far uscire le donne del Paese da una sudditanza antichissima e radicata: si pensi che fino a pochi anni fa non avevano neppure il diritto di proprietà, tutto ciò che avevano apparteneva per legge o al padre o al marito o ai fratelli.
E italiano trasferito da molti anni in Nepal è anche Francesco Sardano, che invece il suo aiuto allo sviluppo del Paese lo ha dato aprendo con un socio locale la più familiare guest-house di Bhaktapur, antica città newari appena a est della capitale, patrimonio dell’Unesco e anch’essa rinata dopo i danni del terremoto. Quello che all’inizio era poco più di un semplice albergo, il suo Nepal Planet, è diventato negli anni una comunità mista di ragazzi nepalesi - i “planetini”, li chiama Francesco - e di italiani innamorati dell’anima di questo Paese, dove ritornano ogni volta che possono e spesso si sentono a casa più qui che nelle loro città. Italiana infine è anche la Cmc di Ravenna, cooperativa di muratori che grazie a un finanziamento della Banca asiatica di sviluppo sta scavando un tunnel di 27 chilometri per portare l’acqua buona della valle del Melamchi a Kathmandu, metropoli in espansione dove ogni anno con i monsoni rischia di arrivare anche il colera.
Ma il Nepal è anche, o soprattutto, un paese di migranti - terzo al mondo per valore delle rimesse inviate dall’estero rispetto all’economia nazionale - e per evitare che il Paese si svuoti, che diventi solo un fornitore di manodopera a basso costo per le avide economie arabe del Golfo, il governo guidato dall’ex guerrigliero maoista Prachanda punta sullo sfruttamento della maggior risorsa naturale (l’idroelettrico) e sul turismo. Con qualche ragione, in effetti, essendo il Nepal paese piccolo ma variegatissimo, che offre al sud una giungla salgariana di elefanti, rinoceronti e tigri (Chitwan, nel Terai) e al nord le vette più alte e spettacolari dell’Himalaya, dove la notte le stelle appaiono in cielo grandi come palle da tennis ebbre di luce. In mezzo, tra questi paesaggi così diversi tra loro, la valle di Kathmandu, punteggiata di antichi templi ignoti di campagna o famosi di città: come Pashupatinat, con le sue pire silenziose, dove i nepalesi affidano le ceneri dei loro defunti alle acque incerte del Bagmati, fiume sacro a induisti e buddisti che molto più a sud andrà a ingrossare il Gange.
Questo è il Nepal, con i suoi tesori. Anche se forse quello più prezioso resta sempre il suo popolo: così mescolato e sorridente, così capace di rinascere sempre.
ha collaborato Vincenzo Giardina