Ci sentiamo assediati dalla vulnerabilità: dal lavoro sempre più 'flessibile' alla psicosi del terrorismo. E le risposte che cerchiamo per mettere a tacere l'ansia possono essere controproducenti
L'insicurezza diffusa si presenta come una preoccupazione crescente nella vita di tutte le odierne nazioni occidentali. C’è chi ritiene si tratti perlopiù di un “costrutto psicologico” alimentato dai media e dalla politica, ma è davvero soprattutto questo? Per rispondere bisogna notare innanzitutto come il tema “insicurezza” sia declinato in vari modi. Esso emerge come associato alla delinquenza comune, all’immigrazione, al terrorismo, ma poi anche come insicurezza economica, sociale, identitaria.
Questa pluralità ha un nocciolo comune o è semplicemente raccolta dall’equivocità di una parola? Per scorgere un senso unitario dell’insicurezza nella sua declinazione contemporanea è necessario fare un passo indietro e guardare ai tratti di fondo di ciò che chiamiamo “globalizzazione economica”, termine con cui intendiamo l’estensione delle dinamiche di mercato ad una dimensione transnazionale.
La recente globalizzazione economica segue la logica della ricerca di equilibrio omeostatico tra tre variabili del gioco di mercato: capitali, merci e persone. Ogni squilibrio nella domanda e nell’offerta tende a essere compensato con trasferimenti di quelle variabili in vista di un nuovo equilibrio. I capitali si spostano dove ottengono maggiori rendimenti, le merci dove c’è maggiore domanda, le persone dove c’è maggiore richiesta di forza-lavoro, il tutto, idealmente, a livello planetario. Ma questi processi omeostatici soffrono di asimmetrie strutturali: i capitali si possono spostare in pochi secondi, le merci in pochi giorni, le persone si spostano con difficoltà soggettive e oggettive enormemente superiori.
Fin qui siamo alle verità dei manuali e dei grafici: un sistema di vasi comunicanti alla perenne ricerca di un equilibrio ottimale, in modo che tutte le variabili possano esprimere il proprio potenziale. Poi però c’è la realtà degli uomini in carne ed ossa. Un sistema di scambio mondiale libero è idealmente guidato dall’ottimizzazione della resa economica di ciascun fattore, e a questo fine esso alimenta un sistema transattivo dove a ciascuno dei fattori è richiesto di essere in moto perpetuo. In questo processo omeostatico planetario decisioni economiche prese qui ed ora possono avere ripercussioni imponderabili in paesi e tempi lontani (si pensi alla genesi della “Crisi subprime”). Rispetto a tali shock imponderabili la teoria suggerisce che vadano riassorbiti accelerando la mobilità di denaro, merci e forza-lavoro tra i vasi comunicanti dell’economia.
Il problema è che tutto ciò non avviene su di un grafico, ma in società storiche esistenti. Dal punto di vista delle donne e degli uomini reali ci troviamo di fatto, e crescentemente, in una cornice descrivibile nei seguenti termini. Estranei (non necessariamente “stranieri”, mossi dal bisogno, entrano ed escono dalle proprie comunità, facendone un uso strumentale e precario, e competendo per un reddito (con successo o insuccesso: in quest’ultimo caso, alimentando oneri di assistenza pubblica o attività illegali). Al contempo, la stabilità di ciascuna posizione lavorativa viene esposta in modo crescente a erosione e minaccia, sulla scorta della pressione competitiva, ora estesa idealmente a qualunque lavoratore (o addirittura macchina) dell’orbe terracqueo. Nell’insieme, l’intera società è spinta a mutamenti sempre più rapidi, rendendo difficile la preservazione di qualsivoglia identità di gruppo, ed erodendo le possibilità di far affidamento su solidarietà locali in caso di bisogno.
Di fatto il sistema globale dei “vasi comunicanti” si converte costantemente in insicurezza oggettiva. Non solo. Tale insicurezza, a ben vedere, è persino rivendicata sul piano teorico come pungolo alla produttività. In effetti, l’insicurezza delle donne e degli uomini nelle moderne società industriali è qualcosa di sistematicamente costruito, rinforzato, e persino teorizzato, sia pure sotto altri nomi. C’è un perfetto continuum tra l’insicurezza economica di redditi precari e posizioni ‘flessibili’, l’insicurezza sociale di relazioni effimere, strumentali e transeunti tra estranei, l’insicurezza criminale spicciola di truffe, borseggi e furti, l’insicurezza identitaria di radici rimosse e di prospettive incerte. Si alimentano reciprocamente sia nella realtà oggettiva che nella percezione soggettiva.
Lo sradicamento, sistematicamente promosso da esigenze di mobilità e spinte competitive, va di pari passo con la responsabilizzazione dell’individuo isolato, cui si richiede di sentirsi integralmente responsabile, nel bene e nel male, del proprio successo o fallimento. L’essere, o il sentirsi, insicuri non è più solo un problema materiale, ma diviene qualcosa di simile ad una colpa di cui farsi carico. L’insicurezza, così come ogni debolezza, è in qualche modo ‘colpevole’. Fallire, come morire, sono eventi che possono con sempre maggiore difficoltà giovarsi di un affidamento ad identità collettive (famiglia, comunità, nazione, ecc.), identità che supportino nel fallimento, o che ereditino le nostre aspirazioni nella morte. L’insicurezza odierna è dunque un’insicurezza profonda, non qualcosa che possa essere scongiurato con diversivi o gesti apotropaici, ma è anche qualcosa il cui carattere strutturale (epocale) viene facilmente dissimulato da risposte fittizie. Proporre risposte all’altezza del problema non è facile, ma è intanto possibile denunciare quelle controproducenti. Ne estrapoliamo perciò tre, schematicamente attribuibili a posizioni di sinistra, destra e centro liberale.
Una prima risposta insensata consiste nel delegittimare la domanda di sicurezza, considerandola una mera finzione, psicologica o mediatica. Prediche sulla necessità di abbracciare la novità e di accettare la diversità, per quanto lodevoli nelle intenzioni, semplicemente non si fanno carico del fatto che viviamo in un’epoca che, come nessun’altra nella storia, è permeata da un’overdose permanente di novità e diversità. Ma ogni persona e ogni gruppo sociale hanno solo una limitata capacità di metabolizzare il nuovo, l’inatteso, il diverso.
Una seconda risposta fuorviante sta nell’identificare l’insicurezza con la cronaca nera e i suoi rivoli emozionali. I diffusi appelli all’autodifesa armata, a ronde di cittadini, vigilanti, ecc., non fanno che “privatizzare” la percezione del problema, contribuendo così a celarne la sostanza strutturale e sociale.
Una terza risposta insensata sta nell’attribuire l’insicurezza al solo fattore reddituale, da risolvere a colpi di crescita economica. Le attuali strategie di crescita infatti non risolvono ma esacerbano il problema, chiedendo maggiore fluidificazione dei rapporti sociali per abbattere le “rigidità” (flessibilità in entrata e in uscita, ecc.). Occasionali incrementi reddituali per alcuni vengono così pagati da estensive e generalizzate riduzioni della sicurezza economica per tutti.
Ciascuna di queste pseudorisposte è una trappola concettuale, una presunta soluzione che alimenta involontariamente il problema stesso di cui si presenta come cura.