Perché su Mafia capitale è stata fatta giustizia a metà
I giudici non hanno guardato in faccia la realtà delle nuove mafie perché il gruppo che ruotava attorno al Cecato non usava il tritolo o le teste di capra mozzate ma ha adattato i metodi della criminalità organizzata ai tempi attuali
I giudici hanno stabilito che Massimo Carminati, il “vecchio fascista” dei Nar, è anche un “delinquente abituale”. Non è un mafioso, hanno deciso i magistrati: è il capo di una organizzazione criminale “semplice” che tuttavia assomma in sé un potere di violenza intimidatoria che parte dalla banda della Magliana, o addirittura da prima, e si è tramandata parlando romanesco. Il che forse non ha lo stesso impatto mediatico e giudiziario del dialetto siciliano o di quello calabrese, che fanno invece pensare subito alla mafia. Anche quando questa non c’è.
A Roma tutti sanno da sempre chi è Carminati. Nonostante ciò, è riuscito negli anni a intessere rapporti con esponenti significativi della politica e della pubblica amministrazione, prima che arrivassero i magistrati con le loro intercettazioni e le indagini dei carabinieri del Ros. La sentenza emessa dal collegio del tribunale di Roma (dopo quasi due anni di dibattimento e solo tre ore e mezza di camera di consiglio) esclude l’associazione mafiosa eppure infligge pene pesantissime. Spiega che c’erano due «bracci» dell’organizzazione: il primo squisitamente di violenza militare, che faceva capo a Riccardo Brugia, anche lui condannato, amico e fedele camerata di Carminati; il secondo era costituito da una serie di imprenditori (fra cui il “compagno” Salvatore Buzzi) che costituivano lo strumento essenziale per arricchire l’organizzazione. Accanto a tutto questo emerge prepotente il fenomeno della corruzione, affinché appalti e servizi venissero affidati agli imprenditori vicini al clan, mentre la concorrenza era scoraggiata con i modi, ben conosciuti, di Carminati e Brugia. Lavori che venivano affidati soprattutto alle cooperative di Buzzi, di cui l’ex Nar era socio occulto. [[ge:rep-locali:espresso:285285885]] I fatti documentati dai magistrati della procura durante il dibattimento attraverso le intercettazioni audio, i filmati e le testimonianze delle vittime sono inconfutabili e raccontano un sistema. Che non è uguale, certo, a quello di Cosa nostra o della ’ndrangheta: il confronto con le vecchie forme di criminalità organizzata non può reggere. Oggi le mafie hanno cambiato pelle e atteggiamento. Adesso, a differenza di tanti anni fa, occorre un’ottica diversa per riconoscere l’associazione mafiosa. [[ge:rep-locali:espresso:285286092]] I fatti criminali che sono stati portati in aula non potranno mai essere cancellati dalla storia politica ed economica della Capitale. La violenza e la corruzione rimarranno impresse sulla pelle di questa città. Per arrivare a sconfiggere associazioni criminali “semplici” come questa di Carminati è essenziale che i cittadini non cedano ai calcoli di convenienza.
Scrive Giuseppe Pignatone, procuratore di Roma, nell’introduzione di un libro di Michele Prestipino: «Ormai da anni le organizzazioni mafiose cercano di evitare atti violenti eclatanti, consapevoli che questi allarmano l’opinione pubblica e attirano l’attenzione di polizia e magistratura. Meglio ricorrere alla corruzione che non è di per sé rivelatrice della presenza mafiosa e che, però, favorisce quella mescolanza fra mondo mafioso e mondo “altro” che, come ben sapeva Provenzano, è alla base della forza delle mafie».
Tra Roma e la Sicilia o la Calabria le differenze sono profonde, anche in termini di bombe, morti e simboli: alle municipalizzate Ama o Atac non sono state trovate teste di capretto mozzate, né è stato usato il tritolo nella sede delle cooperative che hanno preso appalti dal Comune. A Palermo c’era Vito Ciancimino con i suoi assessori complici del malaffare organizzato, a Roma ci sono stati consiglieri comunali e regionali indagati per collusione “semplice”. Restano, fortissime, le denunce delle vittime, la paura dei loro familiari - alcuni dei quali sentiti anche in aula - e il terrore degli imprenditori minacciati o dei politici che hanno assecondato gli interessi di quella rete. La società civile, come pure la politica, non deve dimenticarli.