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'Codice Narcos': così la 'ndrangheta gestisce il traffico di droga con il Sud America

di Giovanni Tizian   6 settembre 2017

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Un metodo di comunicazione tecnologico criptato. Che permette agli 'ndranghetisti di gestire il narcotraffico in continuo contatto con i cartelli sudamericani. Chi è coinvolto nel commercio degli stupefacenti riceve un cellulare “protetto”  da settemila euro. Perché un solo carico di cocaina può garantire milioni ai clan

L'enigma al tempo dei narcos è un foglio con codici alfanumerici. Come i nazisti ai tempi del Terzo Reich, i capi della ’ndrangheta hanno creato un modello di comunicazione ultra sicuro. Lettere e numeri mischiati formano combinazioni ordinate, a prova di spia. I narcos però, a differenza delle camice brune, non hanno avuto bisogno di un marchingegno meccanico né di ingegneri esperti per dare forma al loro progetto. Lo hanno elaborato a tavolino: si sono ingegnati durante uno dei soliti summit convocati per stabilire strategie e affari. Serviva uno strumento per bucare lo scudo di cimici e intercettazioni degli investigatori. Insomma, un “Codice narcos”. Alfabeto e dizionario insieme.

L’unica chiave per decifrare i messaggi criptati inviati via chat, attraverso telefonini Blackberry modificati per funzionare senza sim card. Per esempio, se volessimo dire al nostro socio d’affari, in Colombia o in Messico oppure a New York o a Rotterdam, che la nave è in arrivo con una tonnellata di “merce”, avremmo a disposizione almeno quattro combinazioni. La versione più elementare inizia con D7, la nave; prosegue con D5, le borse cariche di coca; e termina con BB- A13-A18-A19-A19-A26-A21-A21-A30-A13-A30, una tonnellata. Tuttavia, “nave” potremmo anche scriverla così: A19-A30-A11-A26. C’è però una regola a cui tutti gli utenti del Codice devono attenersi. Il precetto prevede di aggiungere alla fine della frase cifrata altre due combinazioni fasulle, per sviare eventuali spioni estranei alla faccenda.

Come nella pellicola premio Oscar “The Imitation game”, anche in questa storia che si dipana tra la Calabria e il mondo sono serviti degli specialisti per risolvere il rebus. Se nel film la ricerca della soluzione dell’Enigma nazista era stata affidata al matematico Alan Turing e ai geni britannici della scuola di crittografia di Bletchey Park, il merito della scoperta dell’alfabeto dei narcos è da attribuire alla squadra di investigatori del gruppo antidroga della Finanza di Reggio Calabria. Due anni di lavoro, giorni e notti tra intercettazioni, pedinamenti, lunghi silenzi e un pizzico di fortuna, per rintracciare la chiave del business più lucroso per la ’ndrangheta e per i suoi partner.
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In questa storia di sigle, codici, enigmi, quattrini, padrini e detective, è tuttavia necessario fare un passo indietro. E trasferirci in Brasile. Ritornare a una calda giornata di metà ottobre scorso su una delle banchine del porto di Rio de Janeiro. Qui a un certo Toti avevano dato solo poche informazioni sulla “roba” da trattare e un Blackberry per comunicazioni sicure. Toti non aveva fiatato: il tizio con cui trattava non gli piaceva affatto. Voleva portare a termine la missione e poi, con i 350 mila dollari guadagnati, tornare sul suo atollo di Tarawa, a Kiribati, microscopico arcipelago dell’Oceania a Nord Ovest dell’Australia. Toti è un marinaio esperto. Si imbarcava per mesi, poi tornava alla base e da qui ripartiva alla volta di un’altra traversata. Una vita dura, l’unica per lui possibile. Così non è stato difficile per il broker dei narcos ingaggiarlo.

Il compito assegnatogli era semplice: a poche miglia dalle coste del porto di Gioia Tauro avrebbe dovuto gettare in mare i 400 chili di cocaina purissima caricati sul mercantile Hamburg “Rio de Janeiro”. Sul Blackberry in dotazione, all’ora X e nella zona rossa di scarico, avrebbe ricevuto un segnale. Solo a quel punto poteva scaricare con le funi la merce caricata in 17 sacche impermeabili, legate a sei taniche galleggianti. La comunicazione sarebbe avvenuta in maniera sicura. Impossibile intercettarli.

Alle 7.40 del 19 ottobre Toti si ritrova così sulla poppa della Hamburg. All’orizzonte Gioia Tauro, a sinistra la Sicilia. Il telefono, però, non emette alcun segnale. Tuttavia il marinaio ha notato un’imbarcazione che da qualche miglio segue il mercantile. Sono loro i miei uomini, pensa. Perciò, senza aspettare oltre, mette fine all’estenuante attesa. Lascia andare la corda, che corre lungo lo scafo rapidamente: l’impatto con l’acqua delle sacche è impercettibile, confuso tra la schiuma delle onde. Missione compiuta, dice, e tira un sospiro di sollievo.

Ma quando la Hamburg fa scalo nel porto calabrese, famoso per essere un hub mondiale della cocaina, gli agenti del Goa della Guardia di Finanza sono lì ad aspettarlo. Avevano intercettato il carico, e probabilmente i destinatari finali avevano sentito puzza di bruciato e preferito perdere quel mezzo quintale di polvere bianca. Così è Toti a dover rispondere di quel traffico.

L’indagine sulla Hamburg e sull’equipaggio di Kiribati comprato dalla ’ndrangheta conferma il ruolo centrale dell’organizzazione mafiosa calabrese nello scacchiere del narcotraffico mondiale. I clan della provincia di Reggio possono contare su una rete capillare talmente estesa e radicata in tutto il globo da potersi comprare l’intero equipaggio di un mercantile. Toti, infatti, ha ammesso di avere avuto dei complici, altri 8 marinai tutti di Kiribati, arrestati con lui e che con lui avrebbero diviso il malloppo dei 350 mila dollari. Se ingaggiare dei poveri marinai può sembrare un gioco da ragazzi, più complesso è comprarsi un comandante esperto abituato a condurre navi mastodontiche che solcano l’Oceano Atlantico.

E arriviamo così al giorno in cui per la prima volta i detective intuiscono l’esistenza di un codice segreto per le comunicazioni. Questa seconda inchiesta sul “Comandante” comprato a suon di quattrini viaggia parallela a quella di Toti. Studiando i movimenti dei narco-boss della piana di Gioia Tauro, gli investigatori della finanza scoprono che per dialogare con il “Comandante” usano un codice tutto loro, lo chiamano vocabolario. È lui, il misterioso “Codice narcos”. Un papello con le istruzioni dettagliate per decifrare le comunicazioni tra trafficanti di coca.
Il vocabolario segreto dei narcotrafficanti

«Usiamo quel vocabolario lì». Quando si dice la fortuna. Una microspia intercetta la distrazione di uno degli affiliati. È così che gli investigatori intuiscono l’esistenza di un alfabeto parallelo e cifrato. Una Lonely planet per esplorare i segreti dei trafficanti. Documento eccezionale, inedito anche per esperti segugi come loro. Tuttavia nessun confidente o pentito li avrebbe potuti aiutare. Potevano solo sperare in una perquisizione particolarmente fruttuosa. E solo una volta chiusa l’operazione con gli arresti dei capi clan.

La sorte ha assistito la squadra antidroga. Molti di loro sono giovanissimi, affiancati da qualche detective più esperto, memoria della storia criminale della provincia. L’ufficio inaccessibile in cui lavorano è un po’ la loro seconda casa. Tutto ciò che può servigli è lì, nel quartier generale. Monitor, pc, database. Qui non conta soltanto conoscere tecnologie avanzatissime, è necessario leggere il territorio, ascoltare i rumori, i suoni che emette. Soprattutto ora che i mafiosi sono consapevoli della permeabilità degli smartphone e dell’invasività delle intercettazioni ambientali. Per questo si affannano a cercare tecnologie sempre più “protette”. Strumenti che arricchiscono rendendoli inaccessibili con combinazioni misteriose.

È nato così il codice narcos. Un ibrido tra passato e futuro. Codici scritti a mano, lettera per lettera, su fogli che funzionano da manuale di istruzioni. Comunicati però via Blackberry, blindati agli intrusi da una modifica che la ’ndrangheta, e non solo, paga fior di quattrini. In pratica il telefono viene staccato dalla linea e funziona senza sim card. Resta collegato a un server estero e in questo modo è in grado di comunicare in un sistema chiuso mettendo in connessione solo gli utenti coinvolti. Impossibile accedervi. Un Blackberry criptato può costare anche 7 mila euro, ci spiega un investigatore, che aggiunge: «Gli ’ndranghetisti coinvolti nei grandi traffici ne usano a decine, lo cambiano spesso e non badano a spese». Un costo di impresa, insomma, al pari dell’equipaggio da ingaggiare e del “Comandante” da corrompere. Questo può voler dire soltanto una cosa: i guadagni di un solo carico sono talmente stellari da permettere di appianare tali spese.

Facciamo un esempio. Al “Comandante” per il suo viaggio dal Sud America, sulla nave Poh Lin della compagnia Msc, sono andati 150 mila euro. Cinquanta prima della partenza, il resto dopo. Poi ci sono i costi della “comunicazione” : non meno di 20 mila euro per cellulari criptati da consegnare al comandante e agli altri personaggi coinvolti nella mediazione e nella trattativa. Inoltre ci sono i broker in Sudamerica da pagare, eventuali funzionari e portuali da corrompere. La ’ndrangheta Spa, dunque, per un carico medio da 80 chili ha messo in bilancio 250 mila euro di costi. Molti quattrini, penserete. Briciole in confronto a quanto avrebbe fruttato il carico di merce preziosa sudamericana. “Roba” purissima, pagata non più di 3 mila euro al chilo, che sul mercato italiano ed europeo si triplica quando viene venduta tagliata. In pratica gli 80 chili diventano 240. Rivenduti a grossisti di medio cabotaggio a un prezzo di circa 32 mila euro al chilo fanno quasi 8 milioni di euro. Toglieteci i costi di cui sopra e avrete l’utile netto che avrebbe incassato la mafia calabrese da quel misero carico di nemmeno un quintale.

È possibile applicare lo stesso schema al viaggio dei 400 chili sulla motonave Hamburg. In questo caso però i profitti sarebbero stati dieci volte tanto, e i costi di poco superiori. Un’economia parallela, la Narco Economy. Che infetta il mercato di un’Europa distratta, con istituzioni incapaci di arginare il fenomeno nel suo complesso e stati membri che chiudono un occhio sulle ricchezze importate dai clan. I capitali della ’ndrangheta reinvestiti nell’economia tedesca, olandese, spagnola e francese non terrorizzano nessuno e nessuno all’estero li cerca.

Questa tolleranza europea ha trasformato il porto olandese di Rotterdam nell’hub più usato dai narcos calabresi e sudamericani. Scalo strategico e meno controllato rispetto al più noto di Gioia Tauro. Già, perché le verifiche che si fanno nel porto calabrese sono all’avanguardia. Questione di business a cui gli olandesi non sono disposti a rinunciare. Più è lunga la sosta del container, e quindi della merce, maggiore è il disagio causato agli operatori che, persa la pazienza, cambiano rotta. I nostri inquirenti sono disposti a rischiare pur di dare l’assalto ai canali di finanziamento dei boss. Altri, evidentemente, no.

«Secondo uno studio noi sequestriamo non più del 10 per cento della cocaina che arriva in Europa», denunciava ormai tre anni fa in commissione antimafia l’attuale procuratore capo di Catanzaro Nicola Gratteri. Sempre Gratteri segnalava - nei giorni successivi all’arresto del Chapo Guzmán, il narco messicano ritenuto fino alla sua cattura il nuovo Pablo Escobar - che i boss calabresi e i cartelli messicani avevano un intenso rapporto di affari. Si fidano l’uno dell’altro. E forse non è un caso che un tale di nome Ruvalcaba Tomas Jesus Yarrington, latitante dal 2012, sia stato fermato a Firenze il mese scorso. Governatore dello stato del Tamaulipas in Messico ed esponente del Partito rivoluzionario istituzionale, Ruvalcaba è considerato il volto pulito del cartello del Golfo. Il messicano, tuttavia, non viveva a Firenze, ma in una villetta in Calabria. Casualità o un altro indizio della joint venture nata per spartirsi il mercato del vecchio continente. L’Europa a misura di narcos. Anzi, di “Codice narcos”.