Lega e M5S non sono partiti estremisti, ma neo-centristi. Il terremoto politico e sociale è lì, nel corpaccione che reclama il cambiamento ma desidera protezione. Per il governo da fare c’è una ricetta antica: il trasformismo che è apparenza di novità e sostanza di potere. Adeguata agli attuali leader, giovani, post-ideologici

Scene di inizio di legislatura. Visti dalla tribuna stampa, i parlamentari usciti dal voto-terremoto del 4 marzo, rappresentano in modo fotografico quello «spartiacque» di cui ha parlato nel suo discorso inaugurale il presidente emerito Giorgio Napolitano: «Un forte mutamento nel rapporto tra gli italiani e la politica, un voto che ha travolto certezze e aspettative di forze politiche radicate da tempo nell’assetto istituzionale e di governo del Paese e ha messo in questione tradizioni, visioni, sensibilità a lungo prevalse». L’immagine dello spaesamento, di un paesaggio modificato e irriconoscibile, prende forma negli emicicli di Camera e Senato.

Nell’aula di Palazzo Madama l’ex presidente del Senato Pietro Grasso e l’ex presidente della regione Emilia Vasco Errani, per dire due figure che incarnano per storia professionale e politica la stabilità, l’equilibrio, la moderazione istituzionale, la cultura di governo, siedono all’estrema sinistra, nei banchi frequentati in anni non così lontani dal trotskista Franco Turigliatto. A Montecitorio nei seggi più remoti a sinistra è finito Pier Luigi Bersani. I deputati e i senatori del Pd si contano in poche file e danno l’idea del fortino assediato: più che di opposizione comunicano un’idea di irrilevanza. I “due vincitori”, il Movimento 5 Stelle e la Lega, occupano alla Camera e al Senato i banchi centrali, quell’affollato parterre in cui, storicamente, si è collocata l’area politica che di volta in volta ha governato l’Italia: prima la Dc, poi Forza Italia-Pdl con Silvio Berlusconi, l’Ulivo e il Pd nell’ultima legislatura.

Poi scendi dalle tribune e li guardi da vicino, cominci a conoscere i nuovi arrivati. E ti appaiono per quello che sono. Non più i leghisti con il fazzoletto verde o i grillini con la borsa del computer a tracolla, ma le facce di un’Italia tutt’altro che sconosciuta. Volti familiari, individui casuali, quelli che incontri in un viaggio in treno in seconda classe, in una coda alle poste, soltanto più eleganti per la grande occasione di fare il parlamentare, gli stessi che si sono messi in fila per salutare Fabrizio Frizzi, tra lo stupore degli intellettuali. Un’Italia normale e popolare senza apparenti passioni politiche, fino al 4 marzo.

Il mutamento che ha travolto tradizioni, visioni, sensibilità è visibilmente al centro dello schieramento politico. La faglia è nel cuore del sistema, è nell’Italia di mezzo, esattamente come quella che si è aperta nell’estate 2016 nel centro Italia, e purtroppo non per metafora, causando morte e distruzione. Per questo sbaglia analisi un politologo attento come Angelo Panebianco che ha visto nel voto del 4 marzo lo squagliamento del centro inteso come fattore di moderazione degli schieramenti in caso di bipolarismo o come terza forza in grado di fare da ago della bilancia (Corriere della Sera, 28 marzo): il centro esiste, è più forte che mai, soltanto che è rappresentato da forze inedite. Sbagliano quelli che vedono in queste forze la vittoria degli estremisti. E sbagliano, specularmente, le sentinelle della rivoluzione, le guardie rosse della diversità grillina, i custodi della limpieza de sangre che reagiscono stizziti a qualunque accenno di scongelamento del monolite casaleggiano.

È stato il paradosso degli ultimi cinque anni, il Movimento immobile, il movimento che non si muoveva mai dalla sua posizione, dire no a tutto. In queste prime settimane di legislatura questo ruolo sembra essersi trasferito da M5S al Partito democratico: fermo, paralizzato, bloccato, come l’ha plasmato Matteo Renzi al momento di lasciare la segreteria. Mentre nel centro del sistema politico la faglia si muove, ancora difficile immaginare in quale direzione, all’inizio della settimana che vedrà finalmente accendersi il motore di riserva della Repubblica, il Quirinale, il capo dello Stato, con le sue consultazioni.

Ma il centro è mobile per definizione. È un corpaccione che vira una volta verso destra e una volta verso sinistra. È il passaggio obbligato di ogni svolta e di ogni manovra, come è sempre successo nella storia della politica italiana, non soltanto nella fase repubblicana.

Giulio Bollati, nel suo saggio sul trasformismo di fine Ottocento (in “L’Italiano. Il carattere nazionale come storia e come invenzione”, pubblicato da Einaudi nel 1983), ha scritto che nelle intenzioni degli esponenti della sinistra storica di fine Ottocento, a partire dal suo inventore Agostino Depretis, il termine era «sinonimo di evoluzione»: «la legge generale delle cose viventi», utilizzato per «connotare in senso scientifico-progressista la richiesta di “trasformare” i partiti eliminando intanto la distinzione tra Destra e Sinistra, già indebolita e non di rado dimenticata nelle combinazioni parlamentari post-unitarie: una maggioranza basata sulla solidarietà sostanziale di persone e di gruppi nel concreto dei programmi e degli interessi collegati». Il trasformismo era nato come equazione chimica: il passaggio da uno stato all’altro, dall’arcaicità al moderno, dal vecchio al nuovo. Ma si era rapidamente trasformato nell’opposto: immobilismo, consociazione di diversi solo apparenti, in realtà tenuti uniti dalla chiusura verso la società. È finita in altro modo: indifferenza agli schieramenti, interessi particolari di singoli capibastone scambiati con l’interesse generale, governi fragili e in mano a drappelli di deputati pronti a vendersi al miglior offerente, affarismo. «Per questa via», scriveva Bollati, «il trasformismo assume definitivamente il significato peggiorativo che ha: distanza tra i propositi dichiarati e i comportamenti effettivi, abilità nel far propri temi e parole dell’avversario per svuotarli di significato, disponibilità a lasciarsi catturare, contrasti in pubblico e accordi in corridoio. Il trasformismo è apparenza, spettacolo, indifferenza al merito delle questioni. Il suo scopo è il potere in quanto tale».

Sarà necessario rileggersi e ricordare queste pagine nelle prossime settimane, quando la maionese delle formule e delle alleanze sarà arrivata al punto dell’impazzimento. Dopo anni di discussioni sul grande centro che si sarebbe incuneato tra destra e sinistra, o sul tentativo di distinguere tra destra moderata e destra xenofoba e anti-europea, su modello della Francia, dopo la lunga e inutile ricerca di una terza via o di Neue Mitte, su modello di quello della Spd di Gerhard Schröder, la trasformazione della vecchia sinistra socialdemocratica in nuovo centro, scopriamo che come sempre in ogni fase di trasformazione radicale il centro è il luogo della crisi. Reclama a parole cambiamento ma vuole conservazione, rifiuta la continuità con il passato ma chiede protezione, perché è la parte di società più coinvolta nei mutamenti strutturali: l’evoluzione tecnologica e la fine del lavoro, la paura dell’immigrazione, la debolezza delle reti di sicurezza garantite dallo Stato sociale che per i giovani italiani può essere al più il nome di una band musicale.

La maggioranza silenziosa che è stata evocata da Renzi per vincere il referendum costituzionale nel 2016 e non crollare con il Pd nel 2017 esiste ma si è voltata dalla parte opposta, dal lato della rottura con i partiti tradizionali, con la rabbia a fare da propulsore, come ha scritto Mario Calabresi (Repubblica, 26 marzo). Ma ora che la rottura si è consumata, in Parlamento ci sono forze che tra loro non hanno nessuno steccato ideologico o di principio, guidate da leader spregiudicati e senza pregiudizi, animati dall’eccitazione del gioco grande che gli elettori hanno consegnato loro. Né di destra né di sinistra, come Emmanuel Macron in Francia, ed era prevedibile che tra M5S e En Marche si sarebbe aperta una strategia dell’attenzione.

O ancora nel centro-destra, come Salvini, ma provvisoriamente perché le nuove identità hanno bisogno di parole d’ordine pesanti, il no agli immigrati, l’ascolto del popolo, e di interpretazioni leggere, secondo i cammini di formazione di leader giovani che anche quando predicano i muri e sventolano i rosari condividono con la loro generazione le identità multiple, la fragilità culturale, l’allergia ai bagagli di qualunque tipo, soprattutto quelli ideologici. Tutti parleranno con tutti, in quella voragine che si è aperta al centro. E che si richiuderà soltanto ricorrendo al modello più antico che l’Italia ha esportato nel mondo. Il trasformismo, che è apparenza di cambiamento e sostanza di potere.

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