Gigliola Pierobon, la contadina veneta grazie a cui l'aborto non è più un reato
Nel 1973 la ragazza finisce alla sbarra. E dal suo caso iniziò la battaglia che portò alla depenalizzazione dell'interruzione di gravidanza e poi alla legge 194
Il momento d’inizio della lunga battaglia per la legge sull’interruzione volontaria di gravidanza fu, probabilmente, il processo a Gigliola Pierobon: una ragazza figlia di contadini di San Martino di Lupara, provincia di Padova, processata nel giugno del 1973 per aver abortito. Rimasta incinta a 17 anni e abbandonata dal suo ragazzo, terrorizzata dall’idea di essere cacciata di casa, Gigliola aveva conosciuto il triste percorso dell’aborto clandestino: il tavolo di cucina di una mammana, una sonda rudimentale piantata in corpo, un dolore atroce, una grave infezione. La sua avvocata, Bianca Guidetti Serra, trasformò il processo in un evento politico-mediatico. E Gigliola in un’aula gremita di pubblico femminile, scandì: «La mia storia è quella di tante altre e il mio “reato” è un fatto commesso ogni anno in Italia da più di tre milioni di donne».
Il dato era forse esagerato (secondo il ministero della Sanità la cifra, comunque impressionante, era di 750 mila). Ma il problema dell’aborto, ancora vietato dalle norme di epoca fascista e inserito fra i delitti “contro l’integrità e la sanità della stirpe” con pene da due a cinque anni, era troppo drammatico e contraddittorio con la nuova aria dei tempi, specie dopo la vittoria del divorzio nel referendum del 1974. Così attorno al tema nacque e si sviluppò il movimento delle donne, con tutte le sue varianti. Il primo, tra i gruppi organizzati, fu il “Movimento di liberazione della donna” (Mld), presto federato con il partito Radicale di Marco Pannella: fra i suoi obiettivi principali, proprio la legalizzazione dell’aborto e un referendum per ottenerla. Al contrario “Rivolta femminile”, il movimento che faceva capo alla neofemminista Carla Lonzi, nel suo manifesto dichiarava “decaduta di fatto” la legge antiabortiva «in nome dei milioni di aborti a cui sono costrette le donne». In un’ottica ancora diversa un’altra propaggine radicale, il Cisa diretto da Adele Faccio (dove presto si attiverà la giovane Emma Bonino) che scelse le iniziative concrete della disobbedienza civile: Bonino accompagnava periodicamente gruppi di donne di altre città ad abortire clandestinamente a Firenze, nell’ambulatorio del ginecologo radicale Giorgio Conciani; un altro gruppo femminista, il Crac, organizzava viaggi analoghi a Londra.
Tutto questo andirivieni non sfuggì alla polizia, che nel gennaio del 1975 fece irruzione nella clinica fiorentina e oltre a Conciani arrestò quaranta donne in attesa dell’intervento. Scattarono le manette anche per Adele Faccio ed Emma Bonino, oltre che per il segretario radicale Gianfranco Spadaccia. Era la prima volta dalla fine del fascismo che veniva arrestato un segretario di partito. Anche la stampa finì sotto tiro: “L’Espresso”, che aveva pubblicato in copertina l’immagine di una donna incinta, nuda e inchiodata a una croce, fu sequestrato per vilipendio della religione e il direttore Livio Zanetti denunciato. Diverse manifestazioni di protesta si tennero in varie città italiane e i radicali riuscirono a raccogliere le firme per un referendum sull’aborto, a cui non si giunse per lo scioglimento delle Camere, nel 1976. Intervenne però la Corte Costituzionale che dichiarò non punibile l’aborto terapeutico in base al principio che il diritto alla vita e alla salute di «chi è già persona» non è equivalente a quello di chi «persona deve ancora diventare». Fu un’apertura importante e anche il Parlamento si mosse con un testo dove l’aborto veniva dichiarato lecito, ma con la decisione finale spettante al medico anziché alla donna.
Il movimento, cresciuto tumultuosamente, si rivoltò e il 6 dicembre a Roma 20 mila donne sfilarono per le strade gridando «Vogliamo l’autodeterminazione», cioè la libertà e la responsabilità di «decidere del nostro corpo». Per sottolineare questa posizione le donne del movimento chiesero ai maschi di non partecipare al loro corteo. Vennero contestati anche i leader di sinistra: «Berlinguer, non passerai sulla pancia delle donne», era uno degli slogan ricorrenti; negli anni del compromesso storico con la Dc aleggiava infatti il sospetto di un Pci troppo cedevole su temi cari ai cattolici e al Vaticano. E in effetti nella proposta comunista era prevista addirittura, per la decisione finale, una commissione di tre esperti, quasi un piccolo tribunale. A svolgere una mediazione importante ci pensò l’Udi, la storica associazione delle donne della sinistra, che si era battuta per l’autodeterminazione.
Così, quando la Dc e i neofascisti del Msi fecero passare con un colpo di mano un articolo che di nuovo definiva l’aborto come un reato, il movimento mise in atto la sua manifestazione più grande, quella “delle 50 mila donne”.
Per la prima volta sfilò anche l’Udi e Berlinguer capì che la libertà femminile andava riconosciuta fino in fondo. La legge 194 passò nella primavera del 1978 e fu pubblicata sulla Gazzetta Ufficiale il 22 maggio. Non tutti i cattolici la digerirono, e alcuni fra l’altro rinfacciarono ai laici e alla sinistra di averla fatta approvare nei giorni drammatici della prigionia e dell’assassinio di Aldo Moro, quasi approfittando dello sbandamento della Dc. I radicali e un’ala del femminismo chiedevano al contrario la liberalizzazione completa, anche per le minorenni. Si arrivò così, nel maggio del 1981, a due referendum abrogativi di segno opposto: uno per cancellare e uno per ampliare la legge 194. Entrambi furono bocciati. Quello dei cattolici oltranzisti si scontrò con il 68 per cento di No, 9 punti in più del referendum sul divorzio. La legge 194 era salva.