La Rete ha cambiato il concetto di spazio.  Anche quello che separa tra loro gli Stati

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La struttura geopolitica dell’Europa è più giovane di quella di ogni altro continente, nel senso che il suo assetto è il più recente di tutti. Circa un terzo dei suoi attuali confini statali è successivo all’ultimo Dopoguerra, più della metà risale al Novecento, e soltanto un quarto del totale è più antico. Al confronto, l’Africa e lo stesso Medio Oriente appaiono modelli di stabilità e di durata. Ragionare in tali termini significa però ragionare ancora secondo lo spirito del trattato di Vestfalia, cui si deve nel 1648, alla fine della Guerra dei Trent’anni, la fondazione della comunità internazionale basata sulla sovranità statale e, di conseguenza, la sistematica formalizzazione del fondamentale organo del funzionamento dello Stato che è appunto il confine, essenziale per la sua identificazione e per il controllo delle sue mosse. Da anni però, in forza dei progressi tecnologici, la definizione confinaria procede secondo metodi e delocalizzazioni che non hanno quasi più nulla a che fare con la trasposizione sulla superficie terrestre di un tratto geometrico disegnato prima ancora su una mappa, come per tutta la modernità è stato.

A partire dalla fine del secolo scorso i confini europei sono divenuti altro da quel che prima erano, e alla statica frontiera sull’orlo esterno dello Stato, che pure resta, si è aggiunta una serie di più o meno visibili meccanismi che trasformano l’estremo dispositivo statale in qualcosa di sempre più mobile e diffuso all’interno del terreno globale, e che attraversa il mondo intero: la terra, il mare, l’aria e il cosiddetto cyberspazio, l’ambito costituito dai flussi di informazione che corrono all’interno della rete elettronica. In tal modo la stessa idea di confine diverge oggi dal modello della contiguità-continuità che fin qui ne aveva assicurato l’immediata e materiale adesione al territorio di riferimento. Al punto che l’Europa stessa si trova costretta a rinunciare (a dispetto di ogni ingenuo sovranismo nazionale) all’idea di corrispondere ad un’entità politica in grado di poter definire con chiarezza quel che è il suo interno e quel che invece è il suo esterno. Come ha detto nel corso dell’ultimo Consiglio europeo, a proposito dei migranti, il presidente francese Macron: «Dobbiamo lavorare oltre i confini europei, sui confini europei e dentro l’Europa».

La produzione della sovranità statale non passa più infatti soltanto attraverso la messa in opera di marcatori territoriali passivi, ma in misura sempre maggiore attraverso vere e proprie “prestazioni confinarie”, per così dire, che investono il territorio degli altri Stati. Perciò ha più senso parlare oggi di “pratiche di confine”, espressione che denota l’attività e la variabile densità dell’apparato di frontiera prima designato dalle rigide metafore di “linea”, “limite” o “muro”. La forma più evidente del loro superamento consiste appunto nell’esternalizzazione delle frontiere stesse, argomento centrale nelle attuali discussioni, da parte dell’Unione europea, sui campi più o meno sorvegliati che dal 2015 svolgono nel Mediterraneo funzione di prima accoglienza nei confronti de migranti di provenienza africana e asiatica. L’esempio però più significativo della recente trasformazione della natura dei confini concerne il programma di sicurezza frontaliera chiamato European Border Surveillance System ovvero Eurosur, lanciato nel 2008 per tutti i 400 milioni di europei di cui si compone l’area Schengen, che per i viaggiatori internazionali già funziona come un unico Stato. Il programma mira a prevenire l’immigrazione non autorizzata e il crimine transfrontaliero attraverso la messa a punto di sistemi di autorizzazione elettronica e controlli automatizzati in grado di rilevare soggetti a rischio “da remoto” come in gergo si dice, utilizzando dati (biometrici e di altra natura) provenienti da Paesi extra-europei. In tal modo il viaggio viene impedito ancor prima che esso inizi, prima che si raggiunga il confine terrestre desiderato. Così quest’ultimo non è più l’unico e nemmeno il più importante, e soltanto il suo carattere visibile lo distingue dagli altri, lontani e comunque invisibili e non più materiali, che ormai lo affiancano.

Con la Rete insomma un’entità ancora più astratta della linea geometrica si sovrappone al dato naturale, con il compito di preservare l’astratto presupposto, l’irreale principio che di fatto è alla base della statica costruzione, ideale prima che materiale, dell’intera modernità: quello per cui il soggetto umano non si muove, come se la vita non si componesse di processi. L’insieme dei fenomeni che sbrigativamente chiamiamo globalizzazione rende però ormai impossibile la persistenza di tale assunto, e proprio in tale impossibilità consiste il “cuore di tenebra” della crisi migratoria, come la chiamano i francesi.

L’attuale difficoltà europea, che è politica ma prima ancora culturale, deriva così dall’incapacità di riconoscere la portata della complessiva fine della supremazia del modello spaziale del funzionamento del mondo. E si comprende, perché si tratta del modello decisivo per l’esistenza stessa dell’Europa.

L’Europa non sarebbe mai esistita se essa non avesse inventato lo spazio, oggi annichilito dalla Rete. E poiché da Kant in poi si fa a gara nell’assegnare a tale termine un carico metaforico bisogna precisare che per spazio (che deriva da stadio, l’antica misura lineare dei greci) va propriamente inteso quel modello per il quale la distanza metrica esprime la relazione più importante tra le cose di cui la faccia della Terra si compone. La sua egemonia si è retta, in epoca moderna, su una serie di presupposti il cui crollo è la prima ragione della nostra odierna incapacità di comprensione e d’azione.

Se ad esempio siamo abituati a distinguere tra soggetto ed oggetto, e tra causa ed effetto, è proprio in virtù del modello spaziale, di cui tali distinzioni sono insieme presupposto e risultato. Lo spazio moderno nasce all’inizio del Quattrocento a Firenze, sotto il brunelleschiano portico dello Spedale degli Innocenti, come divario tra lo sguardo prospettico di un osservatore e quel che gli sta di fronte: soggetto-intervallo spaziale-oggetto. Modulo che a sua volta diviene (come per Galileo sembra chiaro) quello della moderna spiegazione scientifica: causa-intervallo temporale-effetto. Senza il trucco della prospettiva, prototipo dello schema spaziale, mai avremmo distinto tra quel che è animato (il soggetto) e quel che è inanimato (l’oggetto), così come non avremmo mai spiegato, in termini moderni, nulla. Ma tutto ciò è stato possibile a partire da una condizione archetipica, proprio quella che oggi non esiste più: la paralisi del soggetto, il suo essere statico. Un termine, quest’ultimo, che nel Cinquecento non era un aggettivo ma un sostantivo e significava, ad esempio nell’Orlando Furioso, ostaggio.

È sulla base di tale cattura che nasce e prospera lo Stato moderno. Oggi però il funzionamento del mondo costringe a riconoscere che il soggetto si muove, e il suo movimento segna la fine del mondo moderno, del Nuovo Mondo. Perciò per continuare ad esistere l’Europa è chiamata in realtà ad un compito immane: ripensare non soltanto tutta se stessa, ma il mondo intero. Compito rispetto al quale la crisi migratoria vale da sintomo immediato, da tragica ma semplice spia.