
[[ge:espresso:attualita:1.327543:image:https://espresso.repubblica.it/polopoly_fs/1.327543.1563892383!/httpImage/image.JPG_gen/derivatives/articolo_480/image.JPG]]
Quel lontano governo fotocopia è l’opposto del Conte due. Qui di identico c’è solo il premier, tutto il resto è cambiato: maggioranza, ministri, agenda di priorità. E anche raffinatezza della polemica: all’epoca il duello Andreatta-Formica fu definito rissa tra comari, invece era una pagina di letteratura politica. Ma anche oggi la situazione si sta sfarinando, con una velocità inattesa. Risse domenicali. Ultimatum infrasettimanali. Avvisi di sfratto prefestivi. E poi vertici notturni, interviste ai giornali dei leader come quella di Nicola Zingaretti a Repubblica (23 ottobre), provvedimenti annunciati e poi ritirati. Sono i segnali di una crisi strisciante di una maggioranza mai davvero nata perché subita e non scelta dai capi dei due principali partiti. Fosse stato per Luigi Di Maio il governo sarebbe ancora gialloverde, magari guidato da lui anziché dall’invidiato e detestato Giuseppe Conte. Fosse stato per Zingaretti, sarebbero arrivate le elezioni, lui sarebbe uscito sconfitto ma con un gruppo fedele al segretario, invece è stato costretto a incassare una scissione pericolosa. Di Maio deve fronteggiare i suoi deputati, alla Camera da più di un mese faticano a eleggere il nuovo capogruppo, e sì che nella legislatura d’esordio (2013-2018) l’incarico era a rotazione, durava tre mesi. Zingaretti se la vede con un nemico ancora più insidioso perché non si può toccare né vedere ma agisce: la stanchezza, la sfiducia del gruppo dirigente del Pd e anche di un pezzo di elettorato. Il conformismo che consegna il partito a un paradosso: mai così unito ma solo, perché nel frattempo gli avversari interni del segretario hanno cambiato indirizzo, mai così indeciso e paralizzato, appiattito su un governo e su una maggioranza che non era la scelta di origine. Non in questo modo, almeno.
Questa sconfitta con percentuali catastrofiche, potrebbe provocare una blindatura dei parlamentari terrorizzati dal voto, nella speranza che l’attuale legislatura duri a lungo.
Tirare a campare. Una speranza ben riposta, perché nessuno in realtà vuole tornare alle urne, non in tempi rapidi. Ma la vita del governo Conte due non coincide con la vita della legislatura, è questa la novità politica che si è prodotta nella crisi estiva, rispetto ai venticinque anni precedenti, quando più o meno coincidevano, salvo eventi epocali come furono l’uscita di Rifondazione comunista dalla maggioranza che reggeva il governo di Romano Prodi o la tempesta dello spread che travolse Silvio Berlusconi o il tradimento di Matteo Renzi ai danni di Enrico Letta. Si torna alla Prima Repubblica: i governi passano, i Parlamenti vanno avanti. Ma non ci sono i partiti della prima fase repubblicana, né quel sistema che impattava gli scossoni delle crisi semestrali, né, soprattutto, la stabilità del partito Stato, la Democrazia cristiana, che garantiva la continuità del governo, con la sua capacità di innovazione, almeno quella necessaria per andare avanti.
Da circa un quarto di secolo, invece, la politica italiana è inchiodata sul fattore tempo. Leadership fulminanti intuiscono di avere poco tempo e vorrebbero fare tutto e subito. Quando si accorgono dell’impossibilità delle guerre-lampo, ripiegano sulla necessità di durare al potere all’infinito.
È il tempo la dimensione chiave della politica, oltre che dell’esistenza, non solo in Italia. Il futuro appare il tempo preferito dalla propaganda dei leader politici di ogni latitudine. Serve a infondere speranza, ottimismo e spinge in avanti la soluzione dei problemi. Ma nella realtà, non negli slogan o negli hashtag, la politica occidentale si è avvitata su un eterno presente, è questo il tempo dei governanti e dei partiti di maggioranza e di opposizione. La Brexit è una questione di rinvii e di accelerazioni, di un tempo indefinito, intanto si danza sull’attimo.
In Italia il tempo è quello che sta conquistando il capo dell’opposizione Salvini. Si è auto-affondato dal governo, ma ha riconquistato il ruolo che più gli si addice, il tribuno della folla. In piazza San Giovanni a Roma ha divorato quel che restava del suo vecchio partner di governo, Forza Italia, con il malinconico tramonto di Silvio Berlusconi. Sull’altro versante, Italia Viva, Matteo Renzi muove l’attacco all’altro pezzetto di Forza Italia, quello che non vuole morire salviniano, e dichiara il suo obiettivo: il Pd farà la fine dei socialisti con Emmanuel Macron. Per fare questo serve ancora una volta il tempo. L’aggettivo nuovo è sparito dal lessico renziano, meglio parlare di nuovo inizio, meglio ancora parlare di rapido e lento. Il governo Conte, nei piani di Renzi, si consumerà in modo rapido, dopo la legge di Bilancio avrà esaurito il suo compito. Ma la legislatura, invece, avrà un andamento lento, dovrà arrivare fino al 2022, l’elezione del nuovo presidente della Repubblica, il successore di Sergio Mattarella. Nello spazio di questi due momenti c’è la scommessa di Renzi: vincere o perdere, costruire un sistema istituzionale diverso o lucrare sulla rendita di posizione che lo stato delle cose gli consente.
Il tempo della politica e il tempo del racconto. Salvini, l’uomo che si presenta in piazza come fuori dal sistema, ordina ai suoi uomini nel consiglio di amministrazione della Rai di andare all’attacco dei programmi scomodi. Come Report che ha avuto, agli occhi dell’ex ministro, la colpa di riportare in tv le inchieste che L’Espresso sta conducendo da più di un anno su Russiagate e sui rapporti pericolosi tra l’ex ministro dell’Interno e gli uomini di Vladimir Putin. Russiagate non è solo il titolo di un lavoro giornalistico che abbiamo cominciato in solitudine, nella distrazione e nell’indifferenza dei politici dell’opposizione dell’epoca, oggi al governo.
Russiagate è un modello di società, di relazioni tra gli apparati dello Stato, le istituzioni, il potere, la società. Russiagate è un’idea del rapporto con la stampa, da calpestare, cancellare, offendere. È quello che hanno provato a fare i militanti neo-fascisti lo scorso 7 gennaio con i cronisti Federico Marconi e Paolo Marchetti che stavano raccontando per L’Espresso una loro manifestazione pubblica. Il tribunale di Roma ha ammesso il nostro gruppo editoriale Gedi e la Federazione nazionale della Stampa come parte civile al processo. Una scelta importante, perché riconosce un principio sacrosanto: chi tocca un giornalista, chi alza le mani per impedire una foto o un appunto, colpisce tutti quelli che fanno il nostro mestiere e soprattutto la possibilità di raccontare, quindi ferisce tutti i cittadini. È una decisione che fa sperare, in una settimana buia per la giustizia, con la sentenza della Cassazione che ha cancellato per gli imputati del processo di Mafia Capitale l’aggravante del vincolo di associazione mafiosa. Sono criminali, ma non mafiosi, ha sentenziato l’Alta corte. A Roma, dunque, la mafia non esiste. Un’affermazione di altri tempi e di altri tribunali.
Il tempo del racconto è la connessione tra un prima e un dopo, il contesto in cui avvengono i fatti. La Turchia, con la gravità di quanto sta accadendo al confine con la Siria, sulla pelle del popolo curdo, raccontato da Filippo Rossi e dalla scrittrice e giornalista turca in esilio Ece Temelkuran. Gli straordinari servizi di copertina di questo numero ci consentono di accendere gli angoli bui che dividono le due sponde del Mediterraneo, alla vigilia della decisione del governo italiano sul Memorandum con la Libia. Francesca Mannocchi, con le foto di Alessio Romenzi ci porta nel groviglio libico, dove nulla è come appare, dove non esistono i buoni e i cattivi, dove le alleanze si rimescolano e mutano come la sabbia nel deserto. Il suo racconto è spiazzante perché rifiuta le conclusioni facili, non giudica ma prova a spiegare con la semplicità del giornalismo quello che è complicato, sconvolgente, quello che non vogliamo vedere. Le complicità, le omertà, le verità manipolate, le bugie costruite. La versione di Abdul Rahman Milad, detto Bija, di cui qualche settimana fa il giornalista Nello Scavo su Avvenire ha raccontato la trasferta in Italia. Con Francesca Mannocchi per L’Espresso, Bija conferma di essere entrato in Italia nella primavera 2017 con visto regolare e rivela per la prima volta di essere andato anche alla Guardia costiera italiana, alla Croce Rossa, al ministero della Giustizia e «al Palazzo del Ministero degli Interni», al Viminale.
Bija rappresenta il Sistema Libia ambiguo, ramificato, di alto livello, che sceglie le sue sedi e i suoi interlocutori per concludere le sue trattative, quelle ufficiali e quelle ufficiose. Siamo alla vigilia del rinnovo o meno dell’intesa tra l’Italia e la Libia. Nelle pagine che seguono vi mostriamo quello che non vogliamo vedere. Nella speranza che ancora una volta il tempo del racconto giornalistico anticipi il tempo della politica immobile, cieca, incapace di scegliere, pavida. O, peggio, complice.